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Vi confesso che, a dispetto delle sue radicalità negli anni della magistratura, qualche simpatia per Antonio Ingroia era riuscito a strapparmela Maurizio Crozza con le sue imitazioni. Che ne facevano - peraltro con un pezzo di toga ancora addosso, perché lui si era candidato addirittura a presidente del Consiglio senza averla ancora dimessa del tutto - un uomo più pigro o insolente che pericoloso nell’esercizio delle sue vecchie e nuove, improbabili funzioni.
No, non può essere - mi dicevo - l’uomo spietato raccontato da certe cronache a mezza strada fra il giudiziario e il politico, intrise dei soliti retroscena, anche se fra i suoi imputati - vi confesso pure questo - c’erano persone che stimavo. E con le quali avevo persino avuto l’occasione di lavorare conservandone un buon ricordo a dispetto di tutto e di tutti.
Diversamente dall’altro Antonio celebre in magistratura e passato anche lui alla professione di avvocato, il “Tonino” mitico dell’indagine “Mani pulite”, il Di Pietro poi scoperto come ministro da Romano Prodi senza passare per nessuna seduta spiritica evocativa di quella celebre durante il sequestro di Aldo Moro; diversamente, dicevo, dall’altro Antonio poi diventato avvocato, Ingroia mi è piaciuto sempre di più. O dispiaciuto sempre di meno, come preferite. Vi ho sentito un certo afflato umano, persino esploso - voglio confessarvi anche questo - quando l’ho visto assumere le difese di Gina Lollobrigida. Che ritenevo, e ritengo tuttora, ingiustamente ridotta nei suoi ultimi anni di vita a una donna raggirata, manipolata eccetera eccetera. E pazienza se finora come avvocato della Lollo, oltre che definitivamente come pubblico ministero del presunto affare delle trattative fra la mafia e lo Stato, o pezzi di esso, Ingroia ha perso.
Ma anche sul terreno delle trattative denunciate nella stagione stragista della mafia - nonostante la certezza di avere visto o avvertito giusto recentemente mostrata in un incontro al Senato con alcuni suoi ex imputati promosso da Maurizio Gasparri - non dispero che prima o dopo anche lui possa ravvedersi. La toga dell’avvocato non si porta inutilmente addosso, senza farsi cogliere prima o poi dal dubbio. Che non a caso è il nome che si è dato felicemente questo giornale.
Non dispero neppure che Ingroia ritrovi ancora più memoria o fantasia, come preferite, di quanta gliene abbia ravvivata di recente un giornalista facendolo parlare delle famose intercettazioni dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, fatte distruggere dalla Corte Costituzionale e uscite pertanto dalle carte del processo sul già ricordato affare delle trattative con la mafia nella stagione delle stragi.
Non dispero, in particolare, che oltre a parole, pensieri e opere attribuite all’allora e adesso compianto presidente Napolitano sul conto di Silvio Berlusconi che trascorreva gli ultimi suoi mesi a Palazzo Chigi alle prese con i malumori delle borse finanziarie e dei vertici dell’Unione Europea, si riescano a sapere o immaginare - ripeto - parole, pensieri e opere attribuibili a Napolitano sul conto dei magistrati che avevano finito di occuparsi a Palermo pure di lui.
C’è tempo, per carità, per sbrogliare le tante matasse misteriose della Repubblica, comprese quelle accumulatesi nei lunghi 55 giorni della prigionia di Aldo Moro nelle mani delle brigate rosse nel 1978, e forse aggiuntesi a quelle della vigilia: nei giorni, nelle settimane e forse persino nei mesi di preparazione del sequestro dello statista democristiano e della mattanza della sua scorta vicino casa.
Ma lasciatami tornare all’inizio E dirvi di che cosa, più in particolare, sono rimasto colpito ultimamente dell’avvocato Ingroia, preferendolo molto di più al magistrato che fu. Ho letto di lui, senza successiva smentita o precisazione, una risposta assai illuminante a un giornalista dell’Identità che gli chiedeva in pratica se si aspettava “dopo le fratture della Prima Repubblica un indebolimento del rapporto tra politica e criminalità”. “Può sembrare un paradosso - ha detto Ingroia, che deve averne davvero viste di tutti i colori, con qualsiasi toga addosso - ma ci troviamo a rimpiangere la Prima Repubblica, colpevolizzata di corruzione sistemica, mentre adesso si è diffusa a monte come a valle”. Già all’allora capo ancora della Repubblica di Milano Francesco Saverio Borrelli sfuggirono l’impressione che non fosse valsa la pena l’avventura delle “mani pulite” e quasi le scuse, raccolte in un libro autobiografico di Claudio Martelli, peraltro dallo stesso Borrelli definito il migliore ministro della Giustizia di quegli anni. Ma le parole di Ingroia, per l’ancor più vasta e tragica esperienza dell’uomo, mi sembrano come una pietra sulla tomba delle illusioni, nella migliore delle ipotesi. Perché si visse allora non solo di illusioni. Si visse anche di calcoli, dai quali è nata la politica alquanto disertificata di oggi.