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Vogliamo bene a Jannik Sinner. Tutti. O almeno: dovrebbe volergli bene chi ha a cuore lo sport italiano. Chi ama il tennis e sa cosa significhi aver dovuto attendere quasi 50 anni, mezzo secolo, prima di rivedere un italiano alzare la Davis e poi il trofeo di uno Slam. Vogliamo bene, saremmo tentati di dire, anche a chi l’ha seguito fino a farlo diventare un campione così tenace. C’è di mezzo il naturale sentimento campanilistico. Il senso di liberazione dopo aver visto una lunga teoria di talenti mai arrivati a essere campioni. E va benissimo che i commentatori, e gli stessi coach di Sinner, Simone Vagnozzi e Darren Cahill, esaltino la diversità di questo ragazzo.
E d’altra parte, non è che sia diverso dai tennisti italiani: è un alieno rispetto a gran parte del ranking. Però qualcuno dovrebbe spiegarci se dobbiamo intendere la diversità di Sinner come distanza all’Italia. Magari ce lo spieghi lei, coach Vagnozzi. Ci dica meglio cosa intendesse dire alla vigilia della finale di Melbourne, quando in conferenza stampa ha dichiarato che il suo pupillo «è nato in una parte molto seria dell’Italia, dove non parlano molto». Che vuol dire? Che l’Italia, Sudtirolo a parte, non è seria? Che è un paese di pagliacci? I pagliacci italiani? E che siamo, in “Pappa e ciccia”, nell’indimenticabile gag di Paolo Villaggio vestito da infermiera teutonica che attenta alla virtù di un Lino Banfi travolto da improvviso benessere e insiste con il suo “paliaccio italiano, fammi vedere tuo mandolino...”?
Ci sarebbe da offendersi. Ci sarebbe da mettersi lì e farsi disegnare da Vagnozzi la carta geografica del Belpaese a colori: rosso intenso in Alto Adige, con epicentro San Candido, città natale di Sinner, dove immaginiamo siano tutti serissimi, e praticamente muti, rosso appena più stemperato in Piemonte, a Milano, in Brianza... Faccia lui, ci dica chi come il sottoscritto viene da Napoli come deve colorare la propria regione d’origine: rosa pallido? Bianco borbonico? Attendiamo istruzioni.
In conferenza stampa Sinner ha detto due cose che non c’entrano con quell’elitaria latitudine altoatesina grazie alla quale, secondo il suo coach, sarebbe scampato all’indole farfallona e ciarliera. Ha risposto alle polemiche aperte dalla lettera in cui Franco Fava, mezzofondista italiano dei tempi di Panatta, ha contestato sul Corriere della Sera la residenza fiscale monegasca del tennista. Ecco, Jannik ha spiegato che nel Principato ci sta benissimo, «mi sento a casa, ho una vita normale, posso andare al supermercato con zero problemi». Della serie: non è una residenza di comodo, ci vivo veramente. E noi gli crediamo: non abbiamo bisogno di ricordarci che è nato in Sudtirolo per fidarci.
Sinner ha aggiunto che non se la sente di andare a Sanremo, che farà «il tifo da casa» per Amadeus e soci e che nei giorni del Festival sarà «già a lavorare». Nessuno lo accuserà di snobbare quelle insulse cicale della canzonetta. Un tennista c’entra col palco dell’Ariston come Mina con il serve and volley. Non ci tenevamo alla passerella nella città dei fiori, e poi sappia, Jannik, che quanto a supremo distacco da Sanremo c’è chi potrebbe dargli ripetizioni: De Gregori, per dire, ci ha scritto una canzone sul fatto che “la città dei fiori mai mi ha visto e mai neppure mi vedrà”.
Ci piacerebbe però che Sinner, Vagnozzi e chi per loro, ecco questo sì, ci spiegassero se la serietà è un distintivo da italiani per caso. Fateci sapere se Marcell Jacobs, Gimbo Tamberi e tutti gli altri medagliati azzurri dei Giochi di Tokyo, per esempio, sono degni del titolo di italiani seri. O se sono saliti sul podio delle Olimpiadi perché erano lì per recitare la solita parte dei pagliacci.