Vi racconto non Silvio Berlusconi - sarei presuntuoso- ma quello che ho conosciuto - presentatomi a metà degli anni Settanta dal comune amico Roberto Gervaso, quando ero capo della redazione romana del Giornale fondato e diretto da Indro Montanelli. Alla sua morte la vita mi consente di fornire una testimonianza utile forse a comprenderne la complessa personalità che altri - beati loro ritengono di avere capito del tutto per condividerla o contrastarla.

Quando da semplice lettore e ammiratore del Giornale di Montanelli egli divenne editore, fui raggiunto dalla prima telefonata di Berlusconi. Che si lamentava di un controcorrente di Montanelli ancora fresco di stampa in cui l’allora segretario della Dc Flaminio Piccoli veniva preso in giro per avere «perduto anche quello che non ha, la testa» in una riunione di corrente, inveendo contro chi lo aveva criticato o solo chiesto chiarimenti sulla linea politica del partito. «Io - mi disse Berlusconi - sono orgoglioso di avere acquistato il Giornale ma non posso per questo finire di fare l’imprenditore. Non sarebbe utile neppure a voi». Mi trovai in un imbarazzo fottuto, essendo stato io a fornire a Montanelli gli elementi di quel corsivo confidatimi da un giovanissimo Pier Ferdinando Casini neppure ancora parlamentare.

Certo, non potevo vantarmene e tanto meno scusarmene con Berlusconi. Al quale mi permisi di chiedere solo se si fosse già doluto direttamente col direttore. Alla risposta fortunatamente negativa mi permisi di consigliargli di non farlo e di lasciarmi il tentativo di fargli quanto meno ridurre l’ansia che avevo colto nel suo sfogo. E così mi inventai, sempre al telefono, con Montanelli di avare appena raccolto da amici stretti e collaboratori di Piccoli il racconto di sue reazioni quasi isteriche e minacciose a quel controcorrente. Ne raccolsi l’effetto desiderato: un misto di compiacimento e di rimorso con la finale raccomandazione di dare alle nostre cronache e valutazioni “un po’ di tregua” al segretario di un partito fra i cui elettori c’erano anche molti lettori del nostro Giornale.

Vi risparmio altri passaggi per saltare alla mattina in cui, da direttore del Giorno, dove peraltro ero arrivato verso la fine degli anni Ottanta dalla postazione di direttore del primo telegiornale della Fininvest berlusconiana chiamato americanamente Dentro la notizia, raccolsi per telefono un altro sfogo del Cavaliere. Era contro il nostro comune amico Bettino Craxi, che prima lo aveva incoraggiato a scalare la Mondadori, anche a costo di indebitarsi moltissimo, e poi aveva permesso al presidente del Consiglio Giulio Andreotti di puntargli «quasi la pistola alla testa» per chiudere con un compromesso la vertenza apertasi con Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari, decisi a non lasciargli il controllo anche di Repubblica e giornali locali.

Interpretai, a torto o a ragione, quello sfogo come una richiesta di intervento su Craxi, come quella volta su Montanelli per Piccoli. Il risultato fu un altro sfogo, opposto, di Bettino sorpreso dalle complicazioni giudiziarie della scalata alla Mondadori esclusegli da Berlusconi quando gliene aveva parlato.

Facciamo un altro salto per arrivare ad una domenica dei primi anni Novanta nella tribuna d’onore dello stadio milanese di San Siro. Mentre tirava una brutta aria per il sindaco milanese Paolo Pillitteri, comune amico e cognato di Bettino, commentai la fila che facevano gli spettatori per ottenere da Berlusconi un autografo. Mi venne l’idea di chiedergli se non gli potesse venire davvero la voglia, di candidarsi a Palazzo Marino. Ne ottenni non una risposta ma una smorfia indecifrabile. Altro che sindaco di Milano, il Cavaliere era però destinato a «scendere» in politica puntando direttamente a Palazzo Chigi.

A proposito di quella discesa, maturata ed avvenuta quando ero rientrato in Fininvest, mi sentii chiedere dal comune amico Fedele Confalonieri di consigliare «a Silvio» di non mettersi in politica. Rifiutai ritenendo di non averne il diritto perché mai invitato dall’interessato in prima persona ad esprimere un parere, Seguì una proposta di fargli da portavoce. Io risposi che bisognava sapere bene che cosa Berlusconi avesse in testa di fare. E Berlusconi, parlandomi da un’auto, fece finta di non avere deciso ancora di preciso che cosa fare. Pertanto mi chiese finalmente con chi gli consigliassi di allearsi nel caso in cui avesse voluto compiere il grande passo.

Informato da qualche settimana per altre vie della proposta fattagli o ventilatagli dall’allora segretario della Dc Mino Martinazzoli di lasciarsi candidare da indipendente nelle liste scudocrociate al Senato, mi permisi di consigliare a Berlusconi l’accordo, appunto, con i democristiani. «Ma - mi rispose il Cavaliere - quelli della Lega mi hanno già proposto la presidenza del Consiglio». Nacque così la Casa della Libertà e tutto il resto.

Ci ritrovammo qualche altra volta, per esempio attorno alla bara di Craxi appena interrata ad Hammamet, ma sempre di meno, fino a niente. La terra le sia lieve, presidente, visto che in una vita non certo breve non siamo mai riusciti a darci neppure del tu, come in tanti invece si sono presi il permesso, o ai quali è stato concesso di fare per poi litigare fra le proteste e gli insulti di cortigiani, più che di amici.