Dice il dottor Caselli che la riforma della separazione delle carriere sarebbe per l’Ucpi una vera e propria “ossessione” e non si accorge che se c’è qualcosa da segnalare in proposito è al contrario proprio l’ostinazione con la quale la magistratura italiana continua a difendere l’attuale assetto ordinamentale nel quale pubblici ministeri e giudici costituiscono un unico monolite, condividendo una medesima carriera, gli avanzamenti, le nomine e la disciplina. Si tratta sostanzialmente di un unicum nel contesto europeo nel quale Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Inghilterra, ciascuno con le sue peculiarità e con le sue diverse organizzazioni ( per non dire delle altre democrazie occidentali), hanno sistemi nei quali pubblici ministeri e giudici hanno carriere ben separate.

Non sono dunque gli avvocati penalisti ad essere vittime di una “ossessione”, ma piuttosto la magistratura italiana che non accorgendosi che tutti gli altri paesi europei marciano con un altro passo, cerca di convincerci che sono tutti gli altri a sbagliare. Salvo che non si intendano mettere nel conto anche le cosiddette demokrature dell’est Europa, assieme alla Turchia, la Romania e la Bulgaria, dove l’idea autoritaria e illiberale della giustizia ben si coniuga con carriere rigorosamente unificate come la nostra.

Ma proseguendo nella sua argomentazione a guardia dell’intoccabile sistema nostrano, il dottor Caselli prova a spiegare in base a vecchi e nuovi argomenti quali gravi errori siano commessi dai riformatori vittime della loro irragionevole “fissazione”. Uno dei nuovi argomenti è che la creazione di due diversi Consigli superiori, uno per i pubblici ministeri ed uno per i giudici, imporrebbe ulteriori separazioni in quanto, in base al medesimo principio, si dovrebbero anche separare le carriere dei giudici dell’udienza preliminare e dei giudici del Tribunale ed anche quelle dei giudici della Corte di appello e così via, dimenticando tuttavia che la cosiddetta “eterogeneità fra controllori e controllati” deve essere applicata all’interno del processo con esclusivo riferimento al giudice ed alle parti, non certo fra un giudice di primo grado ( che non è parte) ed il giudice dell’impugnazione la cui cognizione scandisce fasi processuali differenti. Ha detto in proposito Andrea Mirenda, componente togato del Csm, che se uno studente prospettasse mai un simile assunto sarebbe severamente “bacchettato”.

Gli altri argomenti sono due argomenti “classici”. Il primo è quello della famosa “cultura della giurisdizione” che i pubblici ministeri separati perderebbero venendo attratti in una “diversa cultura”. Non dice tuttavia il dottor Caselli cosa sia questa così pericolosa cultura differente, e tanto meno ci spiega cosa intenda per “cultura della giurisdizione”, che è una entità così indistinta che ognuno individua in qualcosa di differente ma di egualmente ineffabile. Il Franco Cordero della “Lettera a monsignore” avrebbe evocato lo spirito dell’“elefante rosa”: un accidente metafisico, un “mana” che viene evocato quando l’interlocutore non sa come spiegare - o non vuole spiegare - un fatto che è invece tutto terreno, prodotto di causalità materiali e di condizionamenti eziologici meno eterei.

Il secondo argomento è quello assai risalente del pubblico ministero collocato in uno spazio indistinto e dunque “inevitabilmente” attratto nell’orbita dell’Esecutivo, funzionario addomesticato dalla politica, in quanto privo di responsabilità esterna. Occorre in proposito ricordare come in verità nella riforma disegnata da Ucpi e portata in Parlamento, non dagli avvocati ma da 70 mila cittadini italiani, pm e giudici restano tutti magistrati e tutti appartenenti al medesimo ordinamento giudiziario, distinguendosi solo per carriere, e dunque per funzioni e per organizzazione: i due diversi Csm ne garantiscono, così, non solo l’indipendenza esterna dal potere esecutivo, ma anche la cosiddetta indipendenza interna, ovvero la sottrazione ad ogni condizionamento proveniente dalla promiscua gestione di giudici e pubblici ministeri nelle reciproche carriere e discipline. Vi sarà un giudice, finalmente terzo, a controllare gli straordinari poteri di iniziativa del pubblico ministero. Noi riteniamo che sia proprio questa la più concreta delle prerogative della giurisdizione, senza che vi sia alcun bisogno di evocare improbabili “culture” che non servono ad altro che a giustificare una resistenza corporativa e cetuale che contrasta con lo spirito di una democrazia moderna e aperta al rinnovamento, cui tutti dovremmo aspirare, e con la ragionevole aspirazione di una riforma che ha come fine la realizzazione di quella necessaria terzietà del giudice che sta incisa da oltre venti anni nella nostra Costituzione. Insomma, se una ossessione abbiamo è solo quella della compiuta attuazione della nostra Carta e dei suoi valori a tutela del giusto processo.