Prima la foto di un gruppo di soldati israeliani che pianta la bandiera di Israele sulla spiaggia di Gaza, poi l’identica immagine scattata nel comando centrale di polizia palestinese, poi quella che ha fatto il giro del mondo e che al mondo mostra una cosa: è stato espugnato il Parlamento della Striscia.

La guerra in corso a Gaza, e che tecnicamente forse non si può neanche definir tale perché, ancorché esplicitamente dichiarata dal premier israeliano, non è condotta contro uno Stato (Hamas non lo è), è anche e soprattutto una guerra di comunicazione.

Quelle bandiere di Israele issate nei luoghi simbolo di Gaza danno corpo alle parole di Benjamin Netanyhau, che ha ripetutamente affermato che Israele, a fine delle operazioni militari che giusto ieri fonti della Difesa israeliana riportate dal Washington Post davano in corso ancora per 2- 3 settimane, una volta battuta Hamas resterà nella Striscia, e ci resterà a lungo. Come è noto, la contrarietà su questo punto degli Stati Uniti è netta, e non solo perché rafforzerebbe i già robusti rischi di allargamento del conflitto.

L’ha dichiarato ripetutamente Joe Biden, che ha inviato più volte a Tel Aviv e nelle principali capitali della regione il segretario di Stato Blinken, il capo della CIA Burns, il consigliere per la Sicurezza nazionale Sullivan, l’inviato speciale per il Medio Oriente David Sutterfield: il “quartetto” del presidente americano ha il mandato di trattare con gli israeliani tregue umanitarie, che sono sempre un primo, piccolo passo in direzione di un cessate il fuoco. Ma l’obiettivo strategico è politico: evitare l’allargamento del conflitto, e farlo tessendo con Giordania, Egitto, Paesi del Golfo lo scenario per il dopoguerra.

La linea tracciata è quella dei due Stati, Israele e Palestina, riconsegnando un ruolo alla debolissima Autorità Nazionale Palestinese attualmente guidata da Abu Mazen. Un ritorno all’eterno, irrealizzato futuro della questione israelo- palestinese, così come era stato delineato dagli accordi di Oslo.

Mai tradottisi in realtà dopo gli inconcludenti incontri di Camp David, ma soprattutto dopo l’assassinio di Yztak Rabin ad opera di un ebreo ultraortodosso.

Già sulla carta il percorso tracciato è ripido e tutto in salita, segnato da un pluridecennale fallimento, il cui cuore non è l’incapacità dei mediatori occidentali che si sono alternati sulla scena della missione impossibile, ma nella irriducibilità conflittuale delle due parti in causa.

Ma la politica, e i processi anche democratici che hanno determinato l’emergere delle leadership successive ad Arafat e Rabin (i protagonisti del trattato di Oslo), non sono certo estranee alla guerra in corso. Come la mela di Newton, gli accadimenti sono precipitati nella guerra scatenata dal più orrendo degli atti terroristici, quale è il massacro di civili messo in atto da Hamas il 7 ottobre scorso. Una guerra difficilmente semina speranze di futuro.

I segnali infatti non sono buoni. Quelle foto che danno corpo alla dichiarata volontà di Netanyhau di occupare “a lungo” la Striscia di Gaza, sottintendono anche la sua volontà di restare al potere. Il gabinetto di guerra costituitosi all’istante dopo la tragedia del 7 ottobre, in una ovvia unità nazionale cui si è aggregata l’opposizione liberal a patto dell’esclusione dei rappresentanti dell’ebraismo religioso più estremista che sino a un momento prima avevano permesso a Netanyhau di formare il suo governo, ha congelato i processi per corruzione di Netanyhau e oltre un anno di contestazioni di piazza con le quali milioni di israeliani si sono opposti al tentativo del premier di limitare i poteri di controllo della Corte Costituzionale.

Il governo, si ricorderà, nacque solo quando il premier congelò quella riforma. Che aveva tra i contrari anche i più alti ranghi dell’esercito e dell’intelligence, oltre a buona parte dei riservisti e dell’elettorato dello stesso premier. La vulgata, e la speranza dei democratici israeliani nonché dell’Occidente, è che Netanyhau a guerra finita si faccia da parte. Ma è nel carattere di quel leader esattamente il contrario: quando avrà vinto Hamas, tenterà di restare al potere. E lo farà contando esattamente su quella destra ultraodossa che ha portato al governo, come mai era accaduto prima durante l’intera storia di Israele. A cominciare da quel Ben Gvir, titolare del dicastero della Sicurezza Nazionale, che arma i coloni, predicando l’espansione degli insediamenti israeliani in territorio palestinese. O come un altro ministro del governo Netanyahu, Orit Strock, che qualche mese fa dichiarò «la terra palestinese appartiene a Israele, e non c’è dubbio che vi faremo ritorno».

Raccontano le cronache da Israele in questi terribili giorni di coloni che predicano il “diritto divino” di Israele a quelle terre che sono invece palestinesi per il diritto internazionale. Coloni per i quali anche l’orrendo eccidio di Hamas del 7 ottobre sarebbe parte di un disegno divino, la scintilla della seconda Naqba. Cioè la cacciata di tutti i palestinesi dalle loro terre. Può sembrare un paradosso, ma se la Palestina non verrà occupata, lo si dovrà non alla buona politica ma probabilmente ai militari. Che sanno benissimo quale prezzo pagherebbe Israele in termini di isolamento internazionale. Prima del 7 ottobre, gli “accordi di Abramo” con l’Arabia Saudita era cosa fatta, l’altro giorno da Riad hanno fatto sapere a Washington che l’intero ordine mondiale è in questione, se gli USA non riusciranno a tenere a freno Israele. Ed è solo un esempio.