Chissà se Antonio Decaro, presidente dei Comuni italiani e sindaco di Bari, esprimerà solidarietà al suo collega Giovanni Macrì, che oggi alla manifestazione del 25 aprile non potrà più indossare la fascia tricolore da sindaco. Perché il Consiglio comunale di Tropea, la “perla del Tirreno” nota in tutto il mondo, è stato sciolto martedì per sospette infiltrazioni mafiose.

È quel che rischia il Comune di Bari, dopo che il ministro dell’interno Piantedosi ha avviato la procedura dell’accesso agli atti amministrativi, una sorta di anticamera dello scioglimento. Iniziativa che il sindaco Decaro ha definito un “atto di guerra”. Certo, anche Macrì ha manifestato il proprio sconcerto di fronte alla notizia, come fanno tutti coloro cui capita. Anche perché nel suo caso, proprio come in quello di Decaro, nessun magistrato, nessuna inchiesta giudiziaria ha mai coinvolto direttamente il sindaco. Ma le somiglianze tra i due casi finiscono qui. Soprattutto perché il primo cittadino di Tropea, splendida cittadina a picco sul mare della Baia degli dei, non essendo uomo di sinistra, non ha la pretesa della sacralità antimafiosa e dell’immunità personale e di partito.

Semplicemente rivendica “la bontà dell’azione intrapresa da questa amministrazione in questi sei anni” e si dichiara “convinto della correttezza di tutti gli atti posti in essere”. Non pare aver bisogno di sentirsi un eroe dell’antimafia, né di avere medaglie sul petto. Però tiene a precisare di essere stato “un presidio di legalità”, per aver saputo tenere lontani dalla sua amministrazione della città certi soggetti. Per sua fortuna, nessun presidente di Regione ha pensato di affidarlo a qualcuno di questi “soggetti” o a qualche parente, per tenerlo al riparo dalle vendette mafiose. Proprio adamantino, questo sindaco di Forza Italia, se si tiene anche conto del fatto che, fino a poco tempo fa, il vero dominus della Calabria era Nicola Gratteri, un procuratore che non ha risparmiato nessuno, colpevoli e innocenti, con i blitz e le conferenze stampa.

E poi la costruzione della maxi- aula di Lamezia, in cui si è già celebrato il processo “Rinascita Scott” con quasi 500 imputati. Tutto ruota intorno ai processi istruiti dall’ex procuratore, in Calabria. E anche all’attività dell’ex presidente della commissione bilaterale antimafia Nicola Morra, che ha sempre mostrato un’attenzione particolare nei confronti della regione. Se a questo aggiungiamo una certa campagna stampa dell’Espresso e di Repubblica, che stranamente non si sono mai occupati per esempio della Puglia, è facile capire che cosa abbia determinato il prefetto di Vibo, nell’ottobre del 2023, a inviare la Commissione d’accesso al Comune di Tropea.

Al contrario di quel che sta succedendo al Comune di Bari e alla Regione Puglia, dove l’autorità giudiziaria è impegnata in quattro diverse inchieste che hanno coinvolto diversi amministratori locali, a Tropea a esser preso di mira dalle campagne di stampa è lo stesso sindaco. Gli si imputa qualunque relazione con chiunque. Poi le persone a lui vicine a loro volta

vengono inserite nella ragnatela di una sorta di “parentopoli”. Non si perdona a Tizio di essere parente di Caio, il quale a sua volta ha sposato la nipote di Sempronio, cognato di Nevio. Tutto è pericoloso. Giovanni Macrì ha su di sé l’ombra del sospetto per aver avuto un mentore politico come il deputato di Forza Italia Giuseppe Mangialavori, che non è neppure calabrese, e che, secondo quanto scriveva L’Espresso un anno fa, sarebbe stato chiamato in causa da un “pentito” del “Rinascita Scott”, Bartolomeo Arena, come uomo legato alla ‘ ndrangheta. Prove? Zero.

Infatti il parlamentare non è stato in alcun modo sfiorato dalle inchieste, mai neppure indagato, pure negli anni e nei mesi in cui dal setaccio del procuratore Gratteri non passava neppure un granello di polvere. E mentre Nicola Morra si affannava invano a chiedere lo scioglimento del comune di Tropea per infiltrazioni mafiose. È capitato, paradossi della storia, quando l’ex deputato del Movimento 5 Stelle non è più neppure in Parlamento. I sospetti nei confronti del sindaco Macrì sono tutti di questo tipo. Non ci sono foto con uomini dei clan, ma magari con l’imprenditore colpito da un’ingiusta interdittiva antimafia e indagato in un’inchiesta da cui viene prosciolto e archiviato.

Tutte cose così. E si dovrà capire, come dice lo stesso ex sindaco, su che cosa si fonda lo scioglimento del Comune. “Dovremo aspettare e vedere le motivazioni”, dice. E definisce l’iniziativa del ministro “una pugnalata nell’animo”. Non è bellicoso come Decaro e non mostra la tendenza al vittimismo. Ma non rinuncia a dire la sua sulla legge, quella voluta da un lontano governo Andreotti, quella che dà ai prefetti, cioè a dei funzionari, il potere di azzerare quel che i cittadini elettori avevano deciso e voluto. “Non è una legge, è un refuso medievale che andrebbe rivisto in modo radicale, perché è un qualcosa che si basa su congetture che fanno diventare la persona, anche la più ligia di questo mondo, un terrorista da combattere in tutti i modi”. E tutto ciò avviene nella totale discrezionalità dei prefetti, e indipendentemente dal coinvolgimento, neppure sotto forma di sospetto, dei comportamenti del sindaco.

Non solo i partiti, ma la stessa Anci, l’Associazione dei sindaci, l’organismo presieduto da Antonio Decaro, hanno finora mostrato distrazione nei confronti di questo enorme problema. C’è da sperare che l’esistenza della Commissione d’accesso al comune di Bari dia una svegliata anche agli intangibili uomini di sinistra, a partire da Decaro, per un’iniziativa di revisione di una norma incompatibile con lo Stato di diritto.