Ci perdonerà il narcisismo di Matteo Renzi, ma non è la sua persona la vera variabile che deciderà il risultato delle elezioni nella Regione Liguria del 26 e 27 ottobre.

Le maglie strette del “campo largo” prima o poi faranno flanella, e non è mai stata un tessuto tra i più pregiati. Il centro di queste elezioni è l’ultima fotografia rimasta su piazza. Proprio quella, piaccia o no agli uomini, e soprattutto alle donne di Italia viva, e piaccia o no agli uomini, e soprattutto alle donne di Azione, del 18 luglio.

Stanchi e sudati, i leader di opposizione, nazionale e regionale, Elly Schlein, Giuseppe Conte, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli erano lì, in piazza De Ferrari a Genova, a immaginare la forca sul ramo più alto con appesa la sagoma di Giovanni Toti, con la richiesta di dimissioni di un detenuto. Non c’era Matteo Renzi, in quella piazza, e neanche la sua plenipotenziaria spezzina, Lella Paita. Assente più che giustificato da forti parole contro “i forcaioli” anche Carlo Calenda, benché fosse sfuggita al suo controllo la consigliera comunale nonché segretaria del suo partito in Liguria, Cristina Lodi, una vera grillina che gioca fuori casa.

La fotografia di quel giorno era stata arricchita da un intervento a gamba tesa della magistratura, che aveva emesso un nuovo mandato di arresto per il governatore Toti. Non per un fatto nuovo, ma il redivivo sospetto di commistione tra spot commerciali per Esselunga e quelli politici per la campagna elettorale del sindaco di Genova Marco Bucci, già contestato dal 7 maggio. Di inedito c’era solo l’ennesima relazione della Guardia di finanza, che a pieno titolo è come se fosse salita sul palco dei manifestanti, quel giorno.

È quella fotografia la vera protagonista di questa campagna elettorale. Quel palco al cospetto di poche centinaia di manifestanti sudati ad agitare il cappio, i quattro leader politici fisicamente presenti e l’intervento della magistratura a dare la propria benedizione. Un errore politico, anche se una settimana dopo Giovanni Toti darà le dimissioni tanto invocate.

Che cosa è cambiato in un mese? Quasi niente. Matteo Renzi, che all’epoca della foto di famiglia si era già fatto riprendere in calzoncini da calcio in uno stadio abbracciato a Schlein, si è affacciato a un festival dell’Unità senza chiedere permesso e cantando “compagni avanti, un gran partito”. Aveva detto: «Se si candida Orlando, Toti rischia di vincere anche dai domiciliari». Non lo ha smentito. E Andrea Orlando è sempre lì, mentre l’ex governatore è un uomo libero anche di commettere e ripetere e reiterare all’infinito i suoi reati perché il risultato delle dimissioni è ormai raggiunto e se ne riparlerà al processo del 5 novembre, a elezioni ormai terminate.

Ma i primi sondaggi stanno già mostrando che non esistono fiaccolate come ai tempi di Pietro, di cittadini inferociti in grado di orientare l’elettorato. Anzi, quel combinato- disposto tra toghe e politici del 18 luglio ha probabilmente portato al centro destra, per usare parole di Renzi, più voti che veti.

Un bello slogan, decisamente. Chissà se se ne rendono conto i procuratori genovesi ancora a caccia di “novità” che potrebbero infilarsi nell’urna. E chissà se quelli del campo largo hanno capito che le elezioni liguri si vincono a Genova e non a La Spezia, la città così poco ligure e così tanto toscana. Spezzino Orlando, tenuto in frigorifero con la sua autocandidatura dal 7 maggio, giorno dell’arresto di Toti, spezzina l’inconsapevole Lella Paita, già sconfitta proprio dall’ex giornalista di Mediaset alle regionali del 2015, che oggi sussurra senza pudore che «Orlando è il candidato che può vincere». Spezzino, e amico dell’autocandidato, è Davide Natale, il capo del Pd, il partito che vuole il compagno Orlando nella campagna elettorale, ma non vuole il poco compagno Renzi.

Se a questo aggiungiamo le dinamiche telluriche del Movimento cinque stelle, possiamo comprendere l’apparente sosta davanti alla finestra del centrodestra. Le cui acque non sono così tranquille, e la cui candidatura di Ilaria Cavo, proposta dai giornali sempre informati, non è così sicura né così sponsorizzata dagli stessi amici di Giovanni Toti.

Non si sottovalutano le mosse di Giuseppe Grillo, che è un vero figlio della terra ligure, e sufficientemente bizzarro nella sua follia da sorprendere con improvvisi scarti, a destra o a sinistra. Se però qualcuno pensa che la magistratura stia con le mani in mano, in questi giorni, e rinunci al proprio protagonismo, consiglieremmo di tenere sempre d’occhio il quotidiano di riferimento della procura e le pagine locali di Repubblica. L’accerchiamento nei confronti di Toti è quotidiano e costante, e gli uomini della Guardia di Finanza gli si sono proprio affezionati.

Ogni giorno i cronisti di fiducia si abbeverano a qualche sorso di finta novità. Un po’ di pesca a strascico, un po’ di gioco del gatto con il topo. Il topolone sta al centro dell’attenzione attraverso due sue collaboratrici. Una è Marcella Mirafiori, segretaria e tesoriera dal Comitato elettorale, l’altra è Jessica Nicolini, ex portavoce dell’ex governatore. Gli girano intorno tramite le ex collaboratrici.

È questa la vera campagna elettorale, e non è vincente. Come non lo è stata la fotografia del 18 luglio, con le toghe mischiate alle forche della politica. Renzi e Calenda, se è vero che sono più svegli degli altri, ci pensino bene prima di entrare nell’album di famiglia.