Ci sono due aspetti del saggio di Alessandro Barbano (L’Inganno - Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene – Marsilio 2022) che mi hanno particolarmente colpito: in primo luogo il lavoro di ricerca e di documentazione a cui ha dovuto sottoporsi l’autore per poter raccontare una brutta storia italiana in modo ineccepibile, senza fornire alcun pretesto di critica e di contestazioni.

Questo rigore costituisce la migliore spiegazione del secondo aspetto: il coraggio. Ne occorre tanto per intraprendere una battaglia come quella condotta nel libro. Del resto quando ci si impegna in un’impresa non solo difficile, ma anche rischiosa sul piano personale, non si deve mai commettere un errore capitale come quello di affrontare casi e situazioni senza garantirsi la sicurezza delle informazioni. Chi scrive è convinto, in coscienza, di aver difeso nella sua ormai lunga vita le proprie convinzioni, di aver condotto la buona battaglia (che non significa avere sempre ragione, ma credere in quello che si sostiene) in tante occasioni e attività che ha scelto o dovuto svolgere. Ho subito minacce e ho vissuto in contesti di possibile rischio che mi hanno portato a vivere per ben 11 anni sotto tutela. Ma, inoltrandomi nella lettura del saggio, mi è capitato spesso di stupirmi di fronte a coraggio d cui sono intrise le parole e le frasi di quelle pagine, sorrette da una forza morale veramente inconsueta.

Barbano non si tira indietro e denuncia di “che lacrime grandi e di che sangue’’ il potere politico e giudiziario dell’Antimafia, tanto nelle sue istituzioni portanti (la superprocura e la Commissione bicamerale), quanto nelle organizzazioni che agiscono nella società civile (come il network Libera e il suo carismatico leader).

L’idea forza del libro sta nella denuncia di un sistema in cui a fianco di un diritto penale ordinario è operante un diritto penale speciale, emergenziale dedicato alla lotta alla mafia. La stortura è insita nel ‘’procedimento di prevenzione’’ che consente ai magistrati addetti di sequestrare e confiscare beni e aziende sulla base di accertamenti superficiali e di comminare pene a soggetti che spesso non sono neppure colpevoli né giudicate e condannate.

«Pensate all’assurdo logico - scrive Barbano - che si realizza quando una persona viene, allo stesso tempo, riconosciuta innocente e colpita da una misura afflittiva come la confisca di una casa o dell’azienda di una vita, solo perché viene ritenuto comunque un soggetto a rischio di delinquere anche se nessun fatto specifico gli è contestato. Si è venuta a creare così una sorta di “manomorta’’ giudiziaria che distrugge ricchezza, posti di lavoro e che arricchisce soltanto gli commissari nominati dai tribunali appositi per gestire le attività economiche sequestrate e confiscate perché in odore di mafia.

La conseguenza è la seguente: secondo l’Osservatorio istituito dal ministro Marta Cartabia le aziende affidate agli amministratori giudiziari risultano essere 2.245, ma solo 145 sono ancora attive. Ma le dimensioni reali del fenomeno - aggiunge l’autore - sono assai più numerosi. In un’audizione il ministro Cartabia ha indicato la cifra monstre di ben 215.995 beni coinvolti dalle misure di prevenzione. Di questi 81.913 sono stati confiscati.

Il bello è che l’Agenzia nazionale per la gestione dei beni confiscati è stata promossa nel 2010 dal governo Berlusconi. Gli addetti ai lavori vanno in giro dicendo - c’è caduta anche Cartabia - che la nostra legislazione antimafia è la migliore del mondo e che tutti i Paesi ce la invidiano, salvo, come nota Barbano, guardandosi bene dall’adottarla. In generale il sequestro dei beni negli altri Paesi viene effettuato nell’ambito del processo penale e in conseguenza del suo esito; da noi è una procedura che va avanti sul suo conto sulla base di un sospetto, di stili di vita considerati non compatibili con il proprio reddito, di arricchimenti maturati troppo in fretta. E non c’è Santo che tenga: l’onere della prova è invertito; tocca alla vittima discolparsi della sua … innocenza.

Barbano racconta vere e proprie storie di persecuzioni, di famiglie rovinate a causa di errori nelle indagini in un contesto – quello della c. d. prevenzione – che non consente neppure le tradizionali garanzie di difesa. La passione civile e l’onestà intellettuale hanno persuaso Alessandro Barbano a cimentarsi con il Santuario del giustizialismo come l’Antimafia: una sorta di ‘’ guardiani della rivoluzione’’ di ‘’ talebani in toga’’ sempre pronti loro e i loro manutengoli ad accusare di complicità con la mafia e le altre organizzazioni malavitose chiunque non si prostri ai loro piedi beneficandone il ruolo e santificandone le azioni.

I media hanno creato intorno ai ‘’professionisti del bene’’ un’aura di perfezione, nonostante che taluni di loro meriterebbero di essere spernacchiati per gli insuccessi delle loro retate.

Il diritto penale dell’Antimafia non si cura degli effetti collaterali delle azioni dei suoi sacerdoti, i quali non esitano a coprire i loro soprusi evocando tanti valorosi magistrati, funzionari e personalità politiche che sono morti sul campo dell’onore nel condurre la lotta alla mafia. Il fatto è che l’opinione pubblica è sobillata dall’azione incessante del circolo mediatico giudiziario.

Alla fine nei panni del mio amico Alessandro mi chiederei se dovessi temere di più la mafia o l’antimafia. Cosa nostra può farti saltare per aria mentre guidi l’auto o può mandare un killer ad ucciderti. L’antimafia può fare di peggio: rinchiuderti in un carcere innocente e gettare via la chiave.