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Sfratto del Centro Sociale Leoncavallo - Milano, 21 Agosto 2025 (Foto Claudio Furlan/Lapresse) Eviction of the Leoncavallo Social Centre - Milan, 21 August 2025 (Photo Claudio Furlan/Lapresse)
Lo sgombero del centro sociale Leoncavallo sarebbe dovuto avvenire il 9 settembre come stabilito dal tribunale, ma i reparti della celere si sono presentati con tre settimane d’anticipo, mentre la metà dei milanesi era ancora in vacanza e la città avvolta da una sonnolenta aria da fine estate. Del blitz il sindaco piddino Giuseppe Sala non era stato minimamente informato, uno sgarbo istituzionale per un’operazione interamente condotta dal ministro Piantedosi: «Oggi è stata ristabilita la legalità». Anche Matteo Salvini esulta a modo suo: «Finalmente si cambia, la legge è uguale per tutti, afuera!».
La chiusura dello storico spazio di via Watteau è diventata così l’ennesima dimostrazione di forza della destra di governo che ha voluto colpire uno dei storici simboli della sinistra antagonista; fra poche settimane il Leoncavallo avrebbe celebrato i cinquant’anni di occupazione. La legalità e l’ordine pubblico però sono solo il contorno, lo sfondo e il pretesto di una vicenda che ha un cuore tutto politico.
Eppure l’opposizione si muove dentro lo schema disegnato dai suoi avversari con la più attesa e pavloviana delle repliche: perché il governo non sgombera anche Casapound, lo spazio nel centro di Roma occupato da anni dai giovani di estrema destra? Lo ha preteso l’onnipresente Anpi, lo hanno tuonato diversi esponenti del Partito democratico, dei Cinque stelle, di Avs.
Un coro unanime di personaggi che parlano come zelanti ufficiali giudiziari. Persino i leader di Casapound, dimenticando le suggestioni ribelli e “non conformi” si sono allineati a questa retorica da geometri del comune scrivendo in un comunicato in cui spiegano che la loro sede «è un immobile del demanio dello Stato sottratto al degrado e alla speculazione», mentre il Leoncavallo «occupava uno spazio privato».
Che si tratti di un operazione squisitamente politica lo dimostrano le parole della premier Giorna Meloni che, tra un vertice internazionale sulla guerra in Ucraina e un altro sulla crisi in Medio Oriente, ha trovato il tempo di commentare la vicenda in prima persona: «In Italia non esistono zone franche».
La determinazione con cui il governo ha messo in scena lo sgombero – anticipando i tempi, rivendicandolo in conferenza stampa, costruendolo come evento mediatico – mostra quanto conti la dimensione simbolica nella battaglia politica. Nessun governo in mezzo secolo era riuscito, pur minacciandolo, a smantellare in modo definitivo il centro sociale milanese, questione di equilibri politici e di egemonia culturale. L’ampio consenso di Meloni e soci e la debolezza della sinistra hanno fatto saltare quegli equilibri e, come accade in forme molto più brutali negli Stati Uniti di Trump, la mancanza di una vera opposizione permette agli esecutivi di esercitarsi in continue esibizioni di pèotenza.
C’è anche da dire che da tempo i centri sociali sono diventati un bersaglio a bassa resistenza: poco radicamento sul territorio, capacità di mobilitazione ridotta, consenso esterno limitato, nessun movimento reale a cui agganciarsi. Obiettivi perfetti, insomma, per prove di forza a costi politici quasi nulli.
Negli anni novanta e nei primi duemila i centri sociali facevano parte di una rete globale di movimenti: dalle mobilitazioni contro la globalizzazione neoliberale a Seattle, Genova, Porto Alegre, fino al legame ideale con lo zapatismo in Chiapas, ed erano punti di riferimento per migliaia di giovani di sinistra. Il Leoncavallo, come altri spazi analoghi in Italia, riusciva a calamitare e organizzare generazioni di studenti, precari, militanti che vi trovavano un luogo di condivisione e di sperimentazione politica. Non era solo “l’impegno” a muovere: c’erano la musica, i concerti, le cucine popolari, i mercati alternativi, il mutualismo, ne sa qualcosa Matteo Salvini che ammise di aver (persino lui)il “Leonka”, ma solo per bere qualche birra e corteggiare le ragazze. In quella cornice il Leoncavallo era un laboratorio vitale, che parlava tanto alle periferie quanto a una parte della borghesia cittadina, attraendo personalità e artisti importanti della scena milanese, italiana e internazionale.
Oggi chiunque varchi la soglia di un centro sociale occupato in un normale sabato italiano può osservare il cambiamento antropologico: qualche giovane volenteroso e tante, tantissime teste bianche, perlopiù 50 60enni reduci intristiti della prima generazione di “antagonisti” a cui pochi hanno saputo dare il cambio della guardia, sacerdoti del tempo che fu spiaggiati in immobili fatiscenti a tenere viva la memoria di non si sa cosa.
Lo sgombero del 21 agosto 2025, dunque, non è solo la fine di un’occupazione storica e il ritorno allo stato di legalità: è una delle tante fotografie della mutazione epocale, in altre parole della feroce sconfitta subita dalle sinistre in tutto l’occidente. E la destra di Meloni, Trump e compagnia non ha fatto altro che aspettare il cadavere del nemico mentre passava sul greto del fiume.