In nome del popolo italiano, a Pescara, giovedì 22 febbraio, è stata emessa una sentenza. Una di quelle che si inscrive nell’ormai elevatissimo numero delle decisioni che irritano il senso comune, che tradiscono aspettative di condanna, che alimentano reazioni feroci, istinti di ribellione e pericolosissime idolatrie per soluzioni “antisistema”. Insomma, una sentenza di assoluzione.

La vicenda è tristemente nota: il 18 gennaio 2017 una slavina si abbatte sull’Albergo Rigopiano Gran Sasso Resort. Un’immensa tragedia che ha strappato alla vita e ai propri cari 29 persone. Chi muore in circostanze drammatiche, non importa se per mano di uomo o di natura, è sempre identificato come vittima. Purtroppo, però, da qualche tempo a questa parte, l’assunzione di tale qualità apre immediatamente la strada ad un uso distorto del processo penale, luogo unico e privilegiato di catarsi, personale e collettiva.

Essere vittima attribuisce un nuovo statuto identitario, un passe-partout per legittimare protezione e ascolto assoluti, l’immediato ed autorevole riconoscimento di una connotazione etica inscalfibile, quella dell’innocente. Prima e fuori da un processo. Il meccanismo è ormai ben collaudato: se c’è una vittima innocente, occorre individuare un colpevole, secondo le regole di un ingranaggio sempre più raffinato che trova, oggi, una legittimazione culturale e politica granitica, trasversale, che non conosce posa.

Ma lo sappiamo sin troppo bene. Prendersela con Natura matrigna, «nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali» non restituisce mai, proprio perché impassibile alle sofferenze umane, il mal tolto. Sostenere quindi, come pare capire dall’esito di quel processo, che il dramma che ha sconvolto 29 famiglie, non sia responsabilità umana, non può essere tollerato. Si preferisce invocare Giustizia: purché sia dura, certa, severa. Purché condanni 30 persone tratte a giudizio per sei lunghi anni, questo il numero degli imputati, 25 dei quali assolti dal Gup di Pescara.

Non è andata come ormai ci si aspettava che andasse: se ci sono 30 imputati, 30 devono essere condannati. O, come lascia immaginare un recente tweet del Ministro Salvini - “29 morti, nessun colpevole (o quasi) questa non è giustizia, questa è una vergogna” - ne basterebbe, almeno, un numero massiccio, un tanto al chilo. Un teorema matematico, quello propugnato dal ministro, secondo cui “ad ogni imputazione deve corrispondere una condanna (o quasi)”.

Altrimenti superata la soglia di tollerabilità - non è dato sapere chi e come stabilisca questo limite e quante assoluzioni occorrono per oltrepassarlo - la giustizia si trasforma in vergogna. Un’idea, questa - come scrive il Presidente dell’Unione delle camere penali, Gian Domenico Caiazza nella sua lettera aperta al Ministro Salvini -, spaventosa perché presuppone che l’assoluzione dell’imputato sia il naufragio della giustizia, la condanna il suo trionfo e che il buon giudice sia colui che assevera incondizionatamente l’ipotesi d’accusa.

In questo clima da furor di popolo, i Tg si sono sprecati in una corsa voyeuristica alla ripresa delle immagini che ritraggono lo sgomento dei familiari, facendo eco al loro sdegno, filmando l’ennesimo capitolo di quel ciclo dedicato alla pornografia del dolore che ormai è diventata la cronaca giudiziaria nel nostro Paese. E che porterà acqua al mulino di chi, magari nei prossimi talk show, si farà scudo e interprete di quel dolore, senza neppure usare la prudenza che sempre dovrebbe accompagnare l’analisi di una sentenza: attendere, almeno, le motivazioni.

Non scandalizzano le urla dei familiari, per quanto scomposte. Chi cerca, e noi difensori lo facciamo per mestiere e per elezione, di scandagliare l’animo umano analizzando le profonde ragioni dei gesti, anche dei più turpi, sa che ci sono soglie di dolore ingovernabili, rabbie incrostate e silenziosamente serbate che deflagrano anche in gesti scomposti, inurbani, incivili. Un rispetto assoluto, quello per i familiari, che però non deve tradursi in una resa incondizionata di fronte all’inaccettabile evaporazione dei principi basilari del nostro sistema.

Scandalizza, invece, questo sì, la strumentalizzazione di questo dolore, la sua elevazione a termometro di una giustizia che è tale solo se asseconda un’aspettativa di condanna. Perché la strumentalizzazione di oggi legittimerà le reazioni scomposte di domani: altri familiari si sentiranno in dovere di profanare l’aula di un Tribunale, di inveire contro magistrati della Repubblica, lasciati sempre più soli nel prendere decisioni considerate scomode e che, sol per questo, diventano coraggiose.

Basti ricordare l’invio nel 2020, da parte dell’allora Ministro Bonafede, degli ispettori a Brescia dopo l’assoluzione di un uomo accusato di aver ucciso la moglie. Il sempre più frequente ricorso – emblematico ancora una volta il caso bresciano -, da parte dei magistrati, alla velina per la stampa in cui, prima ancora del deposito della motivazione (solitamente ritardata rispetto al verdetto), si rendono note a grandi linee le ragioni della decisione, nel tentativo di mettersi al riparo dalla severità degli strali dell’opinione pubblica.

Scandalizzano, infine, i tempi di una giustizia - sei anni, in questo caso, per arrivare alla prima sentenza - che tracimano la ragionevolezza e che fatalmente producono una sorta di affezione collettiva per il capo di incolpazione, destinato, in questo frattempo in cui costituisce l’unica ufficiale interpretazione dei fatti (anche se unilaterale e non confermata), a subire una vera e propria innaturale tramutazione: da ipotesi a prova provata di responsabilità. E del resto, “se lo dice la Procura, qualcosa avrà pur fatto”, non è solo una litania da bar. È un pensiero resistente, consolatorio, segno - come ha ben spiegato Francesco Petrelli in “Critica della retorica giustizialista” - della «progressiva svalutazione dello strumento processuale come inutile ostacolo all’accertamento di una verità che è frutto del sentimento comune del “popolo sovrano”», il cui esito, neanche a dirlo, «è la delegittimazione della funzione giudiziaria e la crescita di un sentimento giustizialista che alimenta l’idea di una “giustizia popolare diretta” priva di mediazione».

«Giudice non finisce qui», ha chiosato uno dei familiari. Noi invece speriamo che questo clima finisca il prima possibile e che si possa tornare a considerare il processo il luogo dell’accertamento dei fatti, non la conferma dell’imputazione, la sentenza una decisione criticabile e impugnabile, certo, almeno dopo la sua lettura. E magari, facendo la conta delle assoluzioni, a chiedersi, ogni tanto, anche come hanno vissuto in questi sei anni le persone accusate di reati tanto gravi e giudicate, almeno per ora, innocenti.