Uno tra i temi più sentiti per chi scrive, sia perché vissuto e affrontato quotidianamente come penalista nelle aule di giustizia, sia per ragioni di carattere squisitamente scientifico e accademico, è sicuramente il fenomeno della corruzione. Si è volutamente utilizzato il sostantivo “fenomeno” poiché la corruzione, ben lungi dall’essere una mera fattispecie di reato prevista e punita dal Codice penale è – prima di tutto – un complesso fenomeno sociale e culturale, storicamente radicato. Non a caso, Cicerone, il Codice Teodosiano e le Leggi di Giustiniano trattano del caso dei CF512>nequissimi homines, soggetti spinti dalla ricerca del “proprio tornaconto” e disposti a non osservare alcuna regola, spingendosi anche a convincere funzionari a scendere a compromessi.

Fenomeno che, il legislatore nostrano ha disciplinato a più riprese, tentando di arginare talune derive, inseguire affannosamente il suo repentino evolversi, sino all’odierna connotazione a carattere marcatamente internazionale, transnazionale e sempre più inserita nei gangli dell’economia.

Da qui, le mutevoli fisionomie delle fattispecie di reato che – col tempo – si sono susseguite per “intercettare” le modalità e reprimerle: si pensino, tra tutte, alla modifica della corruzione concepita non più solo come “vendita” del singolo atto bensì dell’ufficio (i.e. della funzione); all’introduzione della “induzione” a metà strada tra la corruzione e la concussione; alla repressione della “corruzione transnazionale” fuori dei confini, a danno di Stati e istituzioni esteri. Sino ad arrivare alla criticatissima “legge spazzacorrotti” la quale, come sapientemente osservato dal presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, è stata giustamente ribattezzata “legge spazzadiritti” dalla avvocatura, poiché ha del tutto indebitamente operato, sotto molteplici profili di diritto sostanziale e processuale, l’errata e non scontata equiparazione tra criminalità organizzata e criminalità corruttiva; a cominciare dalla necessità di collaborare con la giustizia quale condizione imprescindibile (almeno fino alla recente modifica in materia di “ergastolo ostativo” sollecitata dalla Consulta) per godere di benefici trattamentali nell’esecuzione della pena.

Se, come detto, la corruzione è prima di tutto un fenomeno sociale e culturale, occorre allora riflettere sull’altra faccia della medaglia che potrebbe sterilizzare il fenomeno: prevenzione della corruzione e trasparenza, tanto nel settore privato quanto in quello pubblico.

Sul primo fronte, appare imprescindibile citare l’introduzione del reato di corruzione tra privati, nell’ambito dei reati societari di cui al Codice civile e, successivamente, la tanto attesa disciplina in materia di responsabilità degli enti da reato ex decreto legislativo 231/2001, la quale contribuisce, mediante l’adozione di efficaci modelli organizzativi, di gestione e di controllo, a prevenire la commissione di delitti corruttivi da parte di soggetti inseriti al loro interno (prevalentemente gli apicali che possono impegnare e/o controllare le casse, veicolo di interessi). Assetti organizzativi, volti a prevenire il reato, divenuti obbligatori con le modifiche al Codice civile introdotte all’articolo 2086 dal Codice della Crisi e dell’insolvenza: sì, perché la tutela dinamica del patrimonio aziendale (privato e vieppiù pubblico, bene della collettività) muove anche dalla riduzione del rischio da danno reputazionale, in re ipsa nei fatti di stampo corruttivo. Boma dell’assetto penal-preventivo è l’Organismo di Vigilanza che, godendo di pieni poteri ispettivi e di verifica, è funzione indispensabile di collegamento tra chi ha obblighi impeditivi, chi organizzativi e chi dispositivi: protocolli ad hoc di parte speciale con presidi ben precisi fungono da diserbante sul fertile terreno dell’Ente collettivo. A questo si aggiungano anche i sistemi Iso, quali la cd. 37001 (Anti-bribery management systems), standard di gestione per la prevenzione della corruzione ovvero software per organizzare canali di segnalazione interna (whistleblowing). Non mancano ddl volti a creare commissioni certificative degli assetti organizzativi in seno ai Coa territoriali e gruppi di studio interparlamentari per migliorare la legge in materia “231”.

Sul fronte del settore pubblico, l’introduzione della fondamentale legge Severino, che ha imposto una serie rigorosa di adempimenti che gli enti pubblici (o di interesse pubblico), centrali e periferici devono osservare.

Si pensi, alla nomina del Responsabile per la prevenzione della corruzione e della trasparenza il cui compito principale è quello di redigere, sulla scorta delle indicazioni fornite a livello nazionale dal Piano nazionale Anticorruzione, lo strumento del Piano triennale di prevenzione della corruzione e della trasparenza (Ptpct) che predispone strumenti adeguati interni ad ogni amministrazione volti a gestire il rischio corruttivo. In particolare, una delle politiche fondamentali, per favorire la lotta alla corruzione, concerne proprio la trasparenza sull’accessibilità alle informazioni che riguardano l’organizzazione e le attività degli enti pubblici, per favorire forme diffuse di controllo sulle funzioni istituzionali e sulle risorse pubbliche.

Attraverso le sue indagini Anac periodicamente monitora lo stato dell’arte del Paese sull’attuazione della disciplina. Le stesse non mancano di sottolineare come le problematicità maggiori si concentrino negli enti pubblici di minori dimensioni per due ordini di ragioni: da un lato, i doveri correlati alla prevenzione della corruzione vengono intesi come meri adempimenti formali che non migliorano il funzionamento dell’amministrazione; dall’altro, per via proprio delle loro ridotte dimensioni, tali enti difficilmente riescono ad adeguarsi alle prescrizioni dettate in materia per ontologica mancanza di risorse umane ed economiche sufficienti.

Come riconosciuto dallo stesso presidente emerito Flick nel corso della prolusione in Lumsa di sabato scorso, «la sfida è prima di tutto culturale». Fino a quando il funzionario pubblico non percepirà gli obblighi sulla trasparenza e le misure di prevenzione e contrasto alla corruzione come (anche eticamente) doverosi ma come un inutile aggravio di burocrazia, allora nulla cambierà, specialmente in quelle Pa di piccole dimensioni. Appare, in definitiva, imprescindibile e decisiva la formazione e l’interiorizzazione da parte di tutti i pubblici funzionari di quei comportamenti e buone prassi la cui attuazione, in ultima istanza, non è altro che espressione e corollario del principio di fonte costituzionale del buon andamento della Pubblica amministrazione.

Il punto di equilibrio si raggiungerà laddove l’impresa da una parte e il legislatore dall’altra metabolizzeranno «un diritto penale dell’economia che faccia economia di diritto penale», per citare ancora il presidente Flick: si potrà essere tanto più incentivati a porre rimedio alle lacune organizzative, «quanto più (le imprese, ndr) possano avere una fondata aspettativa che questi sforzi saranno premiati sul piano sanzionatorio», così nella nota archiviazione (sul profilo “231” avviato su un importante e grande ente) disposta da un’illuminata Procura della Repubblica.