Di riassunto si può morire. Non diversamente da come si muore di intercettazioni. Usciamo, se possibile, dall’ipocrisia: se un giornale scrive che il sottoscritto è stato arrestato con l’accusa di pedofilia per aver abusato di una bimba, e lo racconta per sintesi anziché esibire le intercettazioni, non per questo la gogna è men dura.

La parafrasi maliziosa e suggestionante al posto del virgolettato, scritta con l’intento di farne l’interpretazione autentica del sospetto del pubblico ministero, è una lama non meno affilata del testo integrale dell’ordinanza cautelare. A proposito di gogna, il falso narrativo dello scandalo dell’Hotel Champagne, con cui si realizza un cambio di potere nel Csm, è un riassunto di intercettazioni che una manina occulta ha messo nelle mani di giornalisti compiacenti.

Questo per dire che il rimedio di vietarne la pubblicazione, approvato dalla Camera e benedetto da molti come una conquista di civiltà, non protegge l’indagato, che ne è il destinatario. Chi pure lo pensa, paga la miopia che talvolta affligge i competenti, e che mostra quanto le aule parlamentari e tribunalizie possano essere, allo stesso modo, distanti dal dolore della vita. Tanto da illudersi che a lenirlo sia un nascondimento di parole.

Purtroppo lo scudo è solo virtuale. Né soddisfa quell’estetica della giustizia penale tratteggiata come un modello, per contrasto con la realtà, in un bellissimo libro del giurista Ennio Amodio. Non a caso il più lucido a cogliere il cuore della questione. Che è il “formidabile impatto colpevolista della misura cautelare”, “l’uniteralità delle fonti di convincimento, che altro non sono – parole sue - se non i risultati investigativi del pubblico ministero”.

È questo il tema: la misura cautelare è la contraddizione intrinseca della giustizia umana, il senso della sua finitezza. La sua necessità e la sua irragionevolezza non hanno mai un punto di equilibrio soddisfacente. Se però lo squilibrio genetico diventa ipertrofia, se il tempismo degli arresti surroga i ritardi del processo, se la sua natura di pena mascherata sposa la tentazione, figlia dei tempi, di una tutela sempre più anticipata, se cioè la cautela si muta in prevenzione, allora il diritto penale cambia pelle. Archivia la colpevolezza per la pericolosità, le prove per i sospetti, i fatti costituenti reato e le condotte per le intenzioni, le passioni, i moti dell’animo. Diventa, come ci insegna Filippo Sgubbi, totale. Perché totalitaria è la prevenzione, quando sposa l’ideologia del potere. Tale è un’azione penale che smette di cercare le prove e indaga i fattori sintomatici della pericolosità e dell’immoralità, predittivi di future azioni delittuose, pescati dalla tecnologia del Trojan nella sua incessante opera di ipersorveglianza sotto la fodera della democrazia, che perciò ci appare, nel suo inconscio collettivo, più brutta e più sporca di quello che è in superficie.

Si può negare che la fase cautelare, in ragione della sua straordinaria efficacia di mezzo che diventa fine e s’impone alla verità del processo, e in ragione della sua abnorme lunghezza che umilia il senso della cognizione ordinaria, se mai questa verrà, è il problema stesso del processo penale, la ragione più profonda della sua crisi? Se l’udienza preliminare giunge almeno due anni dopo gli arresti, in tutto questo tempo noi vorremmo arginare l’uragano dell’indagine con una paratia di carta velina, che fa intravvedere ciò che è accaduto per riassunto, ma confonde la realtà di coloro che, dietro il nascondimento delle parole, ci appaiono come ombre in una tempesta di vento?

Ha senso, in questa tempesta che percuote senza sosta la giustizia in Italia, invocare la verginità cognitiva del giudice del dibattimento, per proteggere quel disvelamento della verità processuale nel contraddittorio paritario tra le parti di fronte a un giudice terzo? Ha senso quando, con una frequenza unica nelle democrazie liberali, la parità è sovvertita nei fatti dall’impatto violento di un provvedimento cautelare che impone il racconto della parte più forte, cristallizzandolo in un tempo troppo lungo per dare senso a qualunque correzione o ripristino? Lo chiedo, senza certezza di avere la risposta, alla sensibilità del giurista Francesco Petrelli, il quale pure vorrebbe, in nome di quella verginità cognitiva, sottrarre un provvedimento che limita la libertà personale a un controllo dell’opinione pubblica.

Non vorremmo che si sapessero le parole dell’assedio di Filippo Turetta a Giulia Cecchettin, precedenti al delitto, le stesse per cui un Paese scende in piazza e prende coscienza del suo lato oscuro? Non vorremmo che si sapessero, si discutessero, si giudicassero, le parole che una narrativa cautelare racconta come scandalo del Csm, o come Mafia Capitale, o, per tornare più indietro, come Tangentopoli? Avremmo forse scongiurato la gogna della magistratura nella notte dell’Hotel Champagne, l’infamia di Roma nelle mani dei boss, i trentatré suicidi della Prima Repubblica picconata da Mani Pulite, se la supina condiscendenza dei cronisti al pm di turno si fosse manifestata per riassunto? No, non l’avremmo scongiurata per niente. Anzi, la necessità di sintetizzare avrebbe trasformato la subalternità del racconto in un’interpretazione, più realista del re, della parte in causa più forte. Avrebbe eliminato l’ambivalenza che talvolta le parole nella loro concatenazione logica e sintattica portano con sé, e che pure potrebbe attivare lo spirito critico e il dubbio.

Talvolta è accaduto. Talvolta a fianco al racconto colpevolista dei più, uno solo o pochi hanno provato a spiegarla in modo diverso. Certo, non quanti ne sarebbero serviti per costruire una coscienza alternativa. Ma negare a quei pochi il diritto-dovere della complessità vuol dire cedere all’emergenza, arrendersi all’idea che il controllo dell’opinione pubblica sulla forza autoritativa dello Stato si risolva per forza, come dice Tiziana Maiolo, nel rito sacrificale officiato dal tribunale del popolo. Non è per questo che è nata la libera stampa. Non è per questo che dobbiamo sopprimerla, cedendo all’idea che la democrazia e i suoi fragili statuti siano da archiviare solo perché sono imperfetti. È facile che ciò accada in un tempo in cui una suggestione tecnocratica c’illude che una società perfetta possa realizzarsi, anche se al prezzo di rinunciare ad alcune libertà.

Ma c’è un altro rischio, sotteso al divieto votato dal Parlamento. Che la giustizia diventi, ancor di più di quanto già non sia, una questione di soli esperti, una contesa tra magistrati e avvocati attorno alla natura scientifica di un reperto, l’imputato di turno. È il rischio più grande, perché in una democrazia giudiziaria trasformata in una ridotta corporativa può accadere che le intercettazioni siano estese ad libitum, prima della legge e poi da una prassi che le autorizza senza che esistano i presupposti, che siano trascritte male e interpretate peggio, e da ultimo che siano inserite nelle ordinanze di custodia cautelare anche se la loro pertinenza è inesistente e se la loro valenza probatoria è zero.

E poi siccome nessuna maggioranza, nessuna categoria, nessuna lobby è capace di smontare questo mostruoso apparecchiamento di microspie e captatori informatici, anzi alla fine quasi ci si è tutti un po’ abituati a conviverci, a qualcuno viene in mente l’idea di nasconderlo ai cittadini. Ma a chi la si vuole raccontare?