Commentare l’omicidio di Martina Scialdone è come avventurarsi su una parete ghiacciata senza ramponi. La dinamica che ha portato alla morte della giovane avvocata romana è ancora incerta, sappiamo poco. E sappiamo ancor meno della relazione sentimentale che intercorreva tra la vittima e il suo carnefice. Ma la morte di Martina sconvolge in maniera particolare, per più di una ragione. Si poteva fare di più? Martina poteva salvarsi? E ancora: è così facile andarsene in giro con un’arma in tasca? Chi ha ucciso aveva premeditato il suo gesto? Su questi quesiti poggeranno le indagini. Mentre a noi tutte frulla in testa una sola domanda: perché Martina non ha riconosciuto i segnali della violenza?

Dalle prime ricostruzioni sembra che la giovane legale avesse concesso al suo ex un “ultimo chiarimento”, quello dal quale ci ripetono sempre di tenerci alla larga. È la prima regola di quel manuale della sopravvivenza mai scritto ma rispolverato per ogni occasione. Più che mai in questo caso, perché si presume che Martina gli strumenti per difendersi li possedesse. Perché era un’avvocata e perché si occupava di diritto di famiglia. Quante volte avrà avuto a che fare con casi di maltrattamenti in famiglia? Ecco il punto, sul quale muovere una prima obiezione: perché a una donna è richiesto di “difendersi”, di “salvarsi da sola”? Come se l’essere “incaute” fosse di per sé una colpa talmente grande da morirne.

A volte il peggio non si può prevedere. A volte lo si sospetta, ma non si ha la forza di tirarsene fuori. Comunque sia, non dovrebbe esserci nulla da cui difendersi. Men che mai per una relazione finita. Ma ciò che sconvolge davvero della morte di Martina, forse, è che il suo caso spazza via quel mantra che ogni donna ama ripetersi per sentirsi al sicuro: “a me non potrebbe mai succedere”. Ci ripetiamo che noi un uomo violento sapremmo riconoscerlo e allontanarlo. Che noi una relazione tossica sapremmo spezzarla. Ci sentiamo petulanti, fobiche, ma pronte a prendere la misura di ogni comportamento fuori posto e anche di ingigantirlo se necessario, perché non si dica che non abbiamo fatto abbastanza per restare in vita. E allora perché Martina ha concesso quell’ultimo appuntamento?

Ci sono persone tossiche, e poi ci sono combinazioni tossiche tra le persone, qualunque tipo di persone. E se per caso siamo noi quelle persone, abbiamo soltanto la mamma o l’amica che ci implora di rompere, mentre a noi sembra che stia esagerando. “Magari è colpa mia se ha perso la testa?”, ci ripetiamo. O peggio: ci convinciamo che aiutare l’amante irragionevole a tornare in sé sia una responsabilità che ci spetta. Per compassione, per amore, ma anche per l’assurda idea di non spingere l’altro al gesto estremo. Insomma, ancora una volta, ci pugnaliamo per restare in vita. Per dimostrare che noi sì, sapremo gestirla. Anche quando sappiamo che l’amore, con la paura, non c’entra nulla.