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Colpa di Gino Paoli. È lui che scrive un appello in favore di Franco Califano, che si attiva per cercare di tirarlo fuori dal gorgo in cui è stato ficcato. A Napoli da tempo i magistrati di quella procura con prosopopea e supponenza hanno illustrato e fatto circolare nomi, accuse, fascicoli, indiscrezioni di quella gigantesca mostruosità giudiziaria che hanno voluto battezzare come “il venerdì nero della camorra”. Si capirà dopo che sì, venerdì nero è stato: per la giustizia, lo Stato di diritto.
In quel momento è l’operazione con un accusato eccellente, Enzo Tortora, accusato di reati infami come appartenenza alla camorra di Raffaele Cutolo e spaccio di droga. Assieme ad altre centinaia di persone, prese a strascico: dopo averle arrestate e sbattute in galera per giorni e settimane, si scopre che si tratta di omonimie, ci sono i cognomi ma non i nomi, o le date di nascita… Quando si mangia il pane si fanno briciole, dirà un componente del Csm; “effetti collaterali”, insomma.
Il teorema che vede il suo perno in Enzo Tortora, giorno dopo giorno, perde i pezzi per strada. In parecchi cominciano ad avere dubbi, a manifestare perplessità. Ecco, dunque il colpo d’ala: si “becca” Califano. Perfetto colpevole, chi meglio di lui? È amico di un gangster milanese che va per la maggiore, Francis Turatello; il figlio compare nella copertina di un suo disco. Non ha mai nascosto di sniffare cocaina; gli piacciono le belle donne, la vita sgargiante, si sa in quel mondo circola di tutto, soldi, droga, camorra… Califano è il tipo giusto per dare nuova credibilità all’inchiesta.
Lo arrestano, lo sbattono in galera. Lui si proclama innocente, ma c’è qualcuno che si dichiara colpevole? E poi il “Califfo” in galera c’è già stato, è un “pregiudicato”. Certo, storia di donne, non delinquenza organizzata, ma non si sottilizzi troppo, è la sostanza che conta.
Ora se si vuole raccontare la vita di un personaggio come Califano, va bene le sue canzoni, i suoi successi, i suoi amori, le sue “imprese”. Ma racconti anche la sua galera, come c’è finito, perché, accusato di cosa, da chi; come ne è uscito e a che prezzi…
Lo sceneggiato andato in onda su Rai Uno domenica 11 febbraio questo “particolare” lo racconta come appunto “particolare”, un inciso incomprensibile per chi non ha vissuto quegli anni, e anche chi c’era fa fatica a ricordare. Il “venerdì nero della camorra”, dunque. Dopo l’appello di Gino Paoli, ti chiedi: vuoi vedere che anche lui, come Tortora? Con paziente, metodico metodo radicale si comincia una sorta di contro-inchiesta. Siamo davvero pochissimi a porci l’interrogativo. Una fatica conquistare spazi di comunicazione e informazione su quotidiani per principio schierati con la procura. Rileggere il carteggio con lui in carcere e poi ai domiciliari, anche a distanza di tanti anni, è ancora penoso. Distruggevano un uomo per dimostrare un inesistente teorema: “Sono frastornato e distrutto, perché un uomo non è un diamante, non ha il dovere di essere infrangibile… Ho in testa brutte cose… venitemi a salvare, sono innocente, e non è giusto che muoia, che mi spenga così...”.
Califano racconta che ad accusarlo sono due “pentiti”: Pasquale D’Amico e Gianni Melluso. Ma D’Amico poi ritratta le accuse. Melluso, invece le reitera. Racconta di aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del “Club 84”, vicino a via Veneto, a Roma; successivamente nell’abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel “Club 84” il sottoscala non c’è; e Califano in vita sua non ha mai abitato a corso Francia. Racconta inoltre che Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto. Per accertarlo non ci voleva la scienza di Sherlock Holmes, o il genio di Hercule Poirot; bastava un po’ di buon senso. Di tutta evidenza assenti e limitiamoci a questo.
Sulle modalità investigative, può illuminare un episodio che mi riguarda direttamente. Vengo convocato a palazzo di Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il Tg2, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, ho rivelato “atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora”. Sono effettivamente colpevole: ho raccontato che Melluso ha ritrattato tutte le sue accuse, assieme a Giovanni Pandico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella: tutto era già stato pubblicato da un settimanale che aveva anticipato la cosa alle agenzie di stampa. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tv… Queste le indagini, il modo di condurle. Finite come sono finite.
Quell’inchiesta, quella detenzione ingiusta, un episodio certo non secondario nella non facile vita di Franco Califano; nessuno che gli abbia poi chiesto scusa. Peccato che Rai Uno tutto questo non l’abbia raccontato. Sarebbe stato istruttivo. O forse proprio per questo…