È insopportabile il mescolarsi del ricordo del supremo sacrificio di Giovanni Falcone, sua moglie e la loro scorta, con le pretese e le polemiche odierne di un pezzo della politica italiana, peraltro di seconda serie, sull’elezione e la composizione degli organi dirigenti della commissione parlamentare Antimafia che il Parlamento attuale ha nuovamente rifilato agli italiani. Si sarebbe potuta e dovuta evitare la coincidenza tra la ricorrenza della tragedia della Strage di Capaci con le nuove manovre e furbizie di terze e quarte file parlamentari a caccia degli ultimi strapuntini di (apparente) rilievo di Camera e Senato. È un segno della debolezza complessiva della nostra politica.

La commissione Antimafia non è una delle commissioni istituzionali del Parlamento. Esiste perché ad ogni inizio di legislatura viene ripresentata e riapprovata. Non si ha purtroppo notizia che qualche volta qualcuno, partito o parlamentare, abbia tentato di bloccarne la rielezione.

Fu varata la prima volta nel 1962. La firmarono Paolo Taviani (Dc) e il comunista Girolamo Li Causi (a cui la mafia siciliana aveva sparato addosso) due politici che dopo tanto tempo i giovani rischiano di confondere con altre personalità del Risorgimento. Era previsto che funzionasse per un’intera legislatura. Certo, poteva essere ricostituita ma nessuno immaginava potesse durare tanto. Oltre 60 anni che, a partire dalla rivoluzione industriale, sono un’eternità: difficile credere che quando Falcone ripeteva che la mafia come tutti i fenomeni umani aveva avuto un principio e avrebbe avuto una fine pensasse a un periodo così lungo.

La legge che istituisce la Commissione prevede che sia diretta e presieduta da un/una parlamentare della Repubblica. Il testo della legge non ha mai indicato né richiesto o imposto altre condizioni. Quindi, tutte le pretese di queste ore secondo cui per presiedere l’Antimafia sarebbe necessario un parlamentare sì, ma con un curriculum speciale (o uno speciale gruppo sanguigno) e la pretesa che si possano porre veti su questo o quel/quella presidente per i suoi orientamenti politici e culturali vanno ascritte alla guerriglia tra le file sempre meno potenti del Parlamento. Quando Camera e Senato appena rieletti decideranno di non rifare la legge Antimafia il Paese avrà fatto un minuscolo passo in avanti per sradicare quel che resta del fenomeno mafioso in Italia. Fenomeno, spiegano storici e sociologi, fino allo scandaloso Alessandro Barbano, ormai molto diverso da quello che abbiamo conosciuto in passato. Del resto, perché meravigliarsi del drastico indebolimento della mafia? S’è semplicemente avverata la profezia di Falcone che un po’ prima di morire, mentre insieme scrivevano Cose di Cosa nostra, consegnò a Marcelle Padovani «la certezza della vittoria finale» contro la mafia e ribadì la sua convinzione che nonostante «le opacità di un grosso ministero» niente poteva distoglierlo dalla sua idea fissa: «Lo Stato ha i mezzi per sconfiggere la mafia».

Diciamo la verità: l’occupazione delle caselle previste dalla rielezione dell’Antimafia di oggi riguarda ormai soltanto parlamentari privi di prestigio e/o potere che vanno sistemati in un posto da dove non possono più far danni. Per incontrare personalità di rilievo è necessario risalire nel tempo a parecchi decenni fa quando la carica di Presidente fu ricoperta da Luciano Violante e/o, ma eravamo agli sgoccioli, Gerardo Chiaromonte. Ma perfino nei loro confronti ci furono critiche perché la Commissione in quanto tale non riusciva ad avere alcun ruolo nel contenimento della mafia delle stragi che, spiegano gli storici (non i politici o le schiere dell’Antimafia del nostro tempo), è un fenomeno che è stato contenuto e indebolito sul campo dalle strategie dispiegate da Falcone, Borsellino e altri eroi del loro tempo.

Oggi si sarebbe potuto approfittare dell’occasione per una riflessione più ponderata e per cancellare una struttura che (a dir poco) da moltissimi anni non produce più alcun contributo nella lotta contro le mafie (ma fior di studiosi contestano lo abbia mai fatto) limitandosi ad audizioni di magistrati e vertici delle forze dell’ordine. Una struttura che deve ormai difendersi dall’accusa di essere una enclave parlamentare per parcheggiare politici ingombranti ai quali è necessario dare adeguata collocazione in attesa della scomparsa dal palcoscenico della politica.

Quasi 30 anni fa, Dario Gambetta, uno dei più acuti analisti delle mafie del Novecento, firmando da Oxford una nuova introduzione al suo La Mafia siciliana (Einaudi 1992, traduzione dall’inglese di Severi e Gambetta), sulla Commissione antimafia annotava: «Si ha l’impressione che questo istituto - di cui pure fecero parte Cesare Terranova e Pio La Torre, che hanno pagato con la vita la lotta alla mafia - sia servito come una palestra in cui le forze di governo permettevano all’opposizione di sinistra di menare pugni antimafia purché rigorosamente nel vuoto». Da allora sono passati oltre 30 anni. I protagonisti hanno nomi diversi e i ruoli si sono invertiti ma la Commissione antimafia continua a essere un inutile diversivo.