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Su Toni Negri, deceduto novantenne nei giorni scorsi a Parigi, girava una storiella che sempre suscitava ilarità, negli ambienti di Potere Operaio degli anni settanta. Pare che un giorno il professore padovano già allora considerato un gigante per i suoi studi filosofici e la sua brillante e precoce carriera accademica, fosse particolarmente infuriato. E alla fine fosse sbottato, con queste parole: perché compagni, o noi ci decidiamo a fare un salto di qualità nella lotta politica di fabbrica, oppure finisce in un solo modo, che spariamo.
Dopo un attimo di sconcerto, i compagni erano scoppiati in una grande risata. Solo lui, il Toni, pareva disorientato, prima di rendersi conto dell’equivoco su quella prima persona plurale del verbo sparire che coincideva con quella del verbo sparare. Sarebbe forse bastato, ai magistrati che lo hanno tenuto a lungo in carcere da innocente, conoscere quell’episodio, e soprattutto il benevolo scherno con cui coloro che lo conoscevano bene non avevano neanche per un attimo accolto l’ipotesi che Toni Negri avesse in mente il passaggio alla lotta armata, per cambiare il corso della storia. È pur vero che tutto poteva accadere, in quei tragici anni settanta. Ma Toni Negri fu sicuramente, oltre che un grande filosofo e un leader politico non da salotto, un teorico della sovversione sociale, a partire dalle fabbriche. In contrasto con le Brigate Rosse e la loro pratica della clandestinità. Era il mondo dell’estremismo di sinistra di quegli anni, che forse non era facile da capire e da interpretare per la maggior parte delle persone e anche dei magistrati, ma non per la sinistra e il suo principale partito, il Pci. Pure fu proprio il mondo dei comunisti ortodossi, con le sue propaggini giornalistiche, e anche qualche collateralismo di ambito giudiziario, a costruire la prima grande bufala politico- giudiziaria della storia italiana. Che venne prima del caso Tortora, di tangentopoli e di tutto quello che ne è seguito negli ultimi trent’anni. Prima di parlare di giustizialismo e di circo mediatico- giudiziario bisognerebbe studiare la storia del processo “7 aprile” del 1979. Che si intrecciò anche, proprio nella figura di Toni Negri, con il più significativo atto terroristico della storia italiana, il rapimento e l’omicidio del Presidente della Dc Aldo Moro.
Quel 7 aprile del 1979 una retata promossa da un pm padovano di nome Pietro Calogero rase al suolo l’intera dirigenza di Autonomia Operaia, un movimento che predicava la sovversione sociale, fortemente caratterizzato dall’operaismo teorizzato da riviste come “Quaderni Rossi” di Raniero Panzieri e Mario Tronti, ma che sicuramente non era terroristico. Pure, Toni Negri con il collega Luciano Ferrari Bravo e altri docenti della facoltà di Scienze politiche di Padova, e poi Oreste Scalzone e tanti altri, una sessantina, furono arrestati e portati nelle carceri speciali. Dove non c’era ancora l’articolo 41- bis dell’ordinamento penitenziario, ma c’era l’articolo 90, che forse era anche peggio. La gran parte di loro resterà in galera cinque anni. Erano accusati di essere i vertici di tutti i movimenti violenti o terroristici di quegli anni e di aver costituito una “O”, cioè organizzazione, che aveva rapinato, sparato e ucciso. Le imputazioni andavano dalla costituzione di banda armata fino all’insurrezione contro i poteri dello Stato. Dieci anni di storia della sinistra estremistica, dal 1969 al 1979, erano letti in quella chiave e attribuiti a loro.
Il professor Toni Negri, il capo, era inoltre accusato di essere il mandante e l’esecutore del delitto Moro. Sarebbe stato da ridere, quasi come nell’episodio dello “spariamo”, ma ormai non si rideva più. Era iniziata la stagione delle leggi speciali, dell’uso dei primi “pentiti”, dell’abuso dei reati associativi. I quotidiani della sinistra ogni giorno inzuppavano il pane, La Repubblica si spinse fino al titolone che indicava Toni Negri come capo delle Brigate Rosse.
L’Espresso a un certo punto toccò il fondo. Inserì nella rivista un dischetto con la registrazione della voce di un telefonista delle Br che parlava con la moglie di Moro minacciandone l’esecuzione. È la voce di Toni Negri? chiedeva L’Espresso ai suoi lettori. Una parlata di cadenza esplicitamente centro- italica (si saprà in seguito appartenere a Valerio Morucci) veniva volutamente confusa con un accento marcatamente veneto come quello del professore padovano. Nella confusione costruita e orchestrata da un mondo di sinistra impazzito, anche chi scrive divenne vittima e subì due giorni di carcere per falsa testimonianza per aver partecipato, un anno prima, a una cena a casa di un magistrato in compagnia del pm Emilio Alessandrini e proprio di Toni Negri. Perché nel frattempo Alessandrini era stato ucciso da Prima Linea e la moglie ritenne di aver riconosciuto la voce di Toni Negri, proprio perché l’aveva sentita nella famosa cena, in quella del dischetto dell’Espresso. Ma, a parte l’increscioso fatto personale (bisogna imparare che i giornalisti non dovrebbero andare a cena con i magistrati), la storia del processo “7 aprile” finirà in una grossa bolla di sapone, nel 1987, al processo d’appello. Ovviamente Toni Negri non era il capo delle Br né aveva rapito Moro. Potere Operaio e Autonomia non erano bande armate, nessuno aveva tentato l’insurrezione, il professore era solo condannato come “sovversivo”, la gran parte dei suoi coimputati era assolta. Avevano scontato anni e anni di carcere speciale per un “teorema”. Che era stato l’apripista di quel che verrà, da Enzo Tortora fino a Mario Mori e la bufala del processo-trattativa.