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IMAGOECONOMICA
Anche il penalista che discute in udienza ha le sue piccole manifestazioni di nevrosi. Ma non bisogna confonderle con le posture, i gesti e le modulazioni della voce che contribuiscono invece a denotare lo stile. Quest’ultimo è modellato da una voluntas ispirata dalla personalità dell’oratore, mentre i tic sono risposte automatiche generate dalla tensione emotiva connaturale allo stato d’ansia di chi parla ai giudici che dovranno deliberare la sentenza.
Prendiamo un atto stilistico qualsiasi per confrontarlo con un riflesso involontario del difensore impegnato nella discussione finale di un processo penale. L’oratore muove le braccia in modo da battere ritmicamente la mano destra su quella sinistra per far risuonare un colpo secco in perfetta corrispondenza della divisione in sillabe delle iniziali di parole cui vuole dare la massima rilevanza espressiva: «basta con le accuse velenose». È una forma stilistica spettacolare, diversa da un comportamento pure cadenzato che l’oratore non controlla, come quello delle sue mani che muovono le carte adagiate sul banco con scatti nervosi che spostano da destra a sinistra, per farle tornare poi a destra, con uno scambio di posizioni tanto repentino quanto insensato.
La differenza tra stile e i tic nervosi non sta dunque nella natura del movimento che accompagnano l’eloquio, ma nella volontarietà o meno dell’atto. Ed è per questo che le manifestazioni stilistiche dell’eloquenza forense sono state studiate fin dall’antichità e hanno offerto spunti per la riflessione sui modi di argomentare nella difesa e nell’accusa mettendo in rilievo gli aspetti comportamentali accanto alle forme retoriche impiegate nel linguaggio.
Al contrario, gli esiti della nevrosi oratoria sono stati assai poco studiati. Forse perché non sono così frequenti e comunque rappresentano un campionario di sequenze che non appaiono funzionali alla persuasione del giudice, ma fanno soltanto venir fuori i sintomi di una piccola patologia che segnala lo stato d’ansia di chi parla.
Volendo offrire una prima rassegna dei tic rivelatori del malessere oratorio, si può analizzare il fenomeno della pendolarità motoria di chi è impegnato nella discussione finale. Un noto esponente del foro penale di una città del nord del nostro Paese usa comportarsi nel modo seguente nei processi più delicati in cui la difesa è chiamata ad argomentare per lunghe ore, egli chiede ai colleghi di lasciare libera la prima fila del banco in cui ha preso posizione nell’aula giudiziaria. Poi prende la parola e, di tanto in tanto, si muove sempre parlando lungo il banco, così da percorrerlo fino alla sua estrema destra, per poi tornare indietro e rimettersi nel posto di partenza, salvo ripristinare il moto riguadagnando il confine del banco per poi riconquistare alla fine il piazzamento iniziale.
Questo curioso pendolarismo oratorio non mi sembra dettato da una consapevole scelta di irrequietezza che potrebbe anche non essere gradita dai giudici. L’oratore diventa peripatetico per una pulsione interiore irrefrenabile che lo porta a cercare nel moto la spinta a far uscire di getto gli argomenti difensivi. Un istinto che gli impone di rifuggire dalla posizione statica in cui il pensiero potrebbe adagiarsi nei cunicoli della mente. Il su e giù del suo corpo scuote invece il grande contenitore della razionalità e fa balzar fuori le punte di diamante dell’eloquenza. Esse magari albergano in fondo al sacco e hanno bisogno degli scossoni per assumere la forma impetuosa della retorica più convincente.
Accomunata al moto pendolare con la stessa connotazione della irrequietezza va collocata la già citata forma di nevrosi consistente nella manipolazione veloce delle carte processuali. L’oratore è preso dall’incontrollabile bisogno di dare il massimo sfogo allo spostamento dei fogli ammucchiati sul banco dietro il quale si trova. Quasi cercasse qualcosa di risolutivo in quegli scritti dai quali si deve distillare la verità, il difensore è, in realtà, come guidato da un grande burattinaio che si diverte a tirare le fila di un pupo inerme. Egli parla e sfoga la sua tensione muovendo le carte da una parte all’altra davanti a sé senza alcuna ragione. Anche qui il moto è sinonimo di pulsione verso uno sbocco razionale che è, però, a causa di quel contegno inconsulto, del tutto irrazionale.
Un ulteriore atteggiamento inconsapevole dell’avvocato che discute nell’udienza penale è quello legato al tipo di reazione che l’oratore avverte nel momento in cui usa il microfono e sperimenta la diffusione della sua voce ad alto volume. Ci sono difensori che parlano continuamente scostandosi dalla linea direzionale giusta per la captazione e l’amplificazione della loro discussione, quasi avessero un istintivo timore di sentire risuonare in modo squillante nell’aula ciò che dicono. La scena in questi casi è sempre la stessa: il tecnico della registrazione raggiunge l’oratore e sposta il microfono da cui questi si è un poco allontanato, ma poi l’avvocato si sottrae ancora alla zona che assorbe e riproduce meglio le sue parole.
Ci sono invece penalisti che avvertono una sensazione piacevole e quasi di supporto psicologico quando la propria voce assume una sonorità dominante. La sovraesposizione crea una sonorità spinta che sembra metter sotto una lente di ingrandimento i significati e li esalta.
Tutto dipende dalla forza che ciascuno sente di poter dare alle proprie ragioni. Se ce n’è poca, l’oratore teme il grande volume perché lo avverte come uno strumento che può ingigantire le sue debolezze. Al contrario, chi è convinto dei propri argomenti interpreta la sonorità come un modo di rendere ancora più persuasive le sue tesi.
Infine, va segnalata tra i tic nervosi la sindrome della penna in mano. C’è qualche difensore che non sa resistere alla tentazione di tenere tra le dita una stilografica o un pennarello mentre svolge la sua arringa davanti ai giudici. Quasi dovesse scrivere invece che parlare come sta facendo in quel momento. È un impulso cui non riescono a sottrarsi quegli avvocati che hanno maggiore dimestichezza con l’argomentare per iscritto. Impugnare la penna per loro è come cercare l’ispirazione che di solito li assiste quando devono tracciare linee difensive in una memoria o in un ricorso. È forse anche un amuleto che diventa insostituibile un po' per scaramanzia e un po' per un imperativo categorico interiore.
Ci si può domandare come nasce l’ansia che genera i tic nervosi. Dopo tutto, per il penalista parlare in udienza è un rischio professionale contro il quale dovrebbe essere vaccinato. Eppure non è così. Anche gli avvocati più esperti e di maggiore talento avvertono una più o meno marcata inquietudine quando si avvicina il momento di dare inizio alla arringa in un processo delicato che si conclude magari dopo mesi o anni di travagliato dibattimento.
Almeno due diversi ordini di motivi contribuiscono ad alimentare la tensione. Anzitutto, c’è la consapevolezza della responsabilità che il penalista assume nel prendere la parola per difendere un uomo raggiunto da una accusa per la quale il pubblico ministero può avere chiesto una condanna a parecchi anni di reclusione. È bensì vero che spesso il difensore viene dipinto come colui che si compiace della rotondità della sua voce e della vis enfatica delle sue figure retoriche, proprio come un consumato attore di teatro che ricerca l’applauso impegnandosi a far vibrare le corde della emotività dell’uditorio da cui è facile strappare un applauso.
Ma si tratta di oleografia destinata a nascondere la realtà che è quella di un professionista della parola che mira a persuadere i giudici e soffre nel timore di lasciarsi sfuggire qualcosa di importante ai fini della decisione a causa dell’imperfezione di qualche passaggio sul merito. Oppure teme di fare qualche scivolone sui modi espressivi che può irritare i giudicanti.
Al di là del timore della inadeguatezza del suo eloquio, l’oratore forense avverte con un certo fastidio di essere sottoposto al giudizio, talvolta impietoso, dei colleghi che lo ascoltano e del cliente che sta dietro le sbarre o è seduto in udienza vicino a lui. L’arringa è rivolta ai giudici, ma l’oratore forense sa che in quell’aula c’è un uditorio supplementare, pronto a censurare alla prima occasione il suo stile e la scelta degli argomenti che affiorano dalla sua discussione.
Da qui, appunto, lo stato ansiogeno che produce i tic nervosi, punto di emersione del malessere da cimento oratorio con cui il penalista deve saper sempre fare i conti.