Martedì ci sono stati i funerali di Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica dal 2006 al 2015. C’è chi lo ha celebrato, chi lo ha denigrato e tutte le possibilità intermedie di giudizio – come accade sempre alla morte di qualcuno. C’è anche chi si è chiesto come saremmo diventati con più Napolitano. Forse “non ci sarebbe stata una inesistente superiorità morale da rivendicare”, forse “non sarebbe nata una Seconda repubblica edificata sul mito infantile dell’onestà e dell’antipolitica”, ha scritto Mattia Feltri sull’HuffPost il 23 settembre ed è forse l’unica cosa da leggere.

Io mi chiedo se, con più Napolitano, saremmo anche stati anche meno pigri nel rispondere alle persone che vogliono avere la libertà e il diritto di morire – se e quando considerano la propria vita solo un peso perché condizionata irreversibilmente da una malattia o dalle conseguenze di un incidente. Me lo chiedo perché ripenso alla sua riposta alla lettera di Piergiorgio Welby del settembre 2006. In quella lettera Welby spiega benissimo le sue ragioni e le sue condizioni, troppo spesso ignorate o dimenticate quando si parla di eutanasia o di suicidio assistito, come fossero solo principi astratti e riguardassero anime disincarnate.

“Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita”, scrive il co- presidente dell’Associazione Luca Coscioni. Ora la sua vita inizia con l’allarme del respiratore polmonare e prosegue tra medicazioni, aspirazioni tracheali, il monitoraggio dei parametri ossitometrici, la pulizia, la nutrizione artificiale. Non si alza quasi più, fatica a stare seduto, è debole e stanco, pensa solo a come interrompere quella vita che non è più vita ( per lui, non è un giudizio universale). “Guardo la tv, aspettando che arrivi l’ora della compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina”.

Welby non vuole morire. Cioè, se potesse scegliere in senso forte non vorrebbe morire ma continuare a vivere. “Tutti i malati vogliono guarire, non morire”, scrive. Ma quando guarire non è possibile? Quando della tua vita non è rimasto quasi più niente? È giusto togliere alle persone anche la possibilità di anticipare una morte che comunque arriverà, costringendoti a vivere gli ultimi giorni o le ultime settimane come non vorresti vivere?

Dalla sua richiesta passeranno 88 giorni. 88 giorni per rispettare una legittima volontà. Napolitano, pur consapevole dei limiti del suo ruolo, risponde comunque a Welby e si augura che la sua richiesta non sia ignorata. “Penso che tra le mie responsabilità vi sia quella di ascoltare con la più grande attenzione quanti esprimano sentimenti e pongano problemi che non trovano risposta in decisioni del governo, del Parlamento, delle altre autorità cui esse competono. E quindi raccolgo il suo messaggio di tragica sofferenza con sincera comprensione e solidarietà. Esso può rappresentare un’occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi, di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito, qualunque possa essere in definitiva la conclusione approvata dai più”.

Quella occasione di riflessione è stata invece sprecata. “Mi auguro che un tale confronto ci sia, nelle sedi più idonee, perché il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento”, conclude Napolitano.

A parte l’attesa di Welby – quegli 88 giorni che per chi sta male e aspetta una risposta sono una oscena elusione – negli anni successivi ci sono stati molti silenzi ingiustificabili. L’unica eccezione è stata la legge del 2017 sulle disposizioni anticipate di trattamento, che ha solo ribadito cose ovvie come la possibilità di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario e quindi anche di interromperlo. Oggi quella libertà di scegliere che chiedeva Welby è in parte garantita dalla sentenza 242 della Corte costituzionale, grazie insomma a Fabiano Antoniani e a Marco Cappato che lo ha accompagnato in Svizzera.

Dal legislatore nessun segnale di vita, eppure sarebbe facile: basterebbe copiare, eliminare il sostegno vitale inteso in senso restrittivo come requisito, garantire i tempi per la verifica degli altri requisiti (la scelta libera, la capacità di intendere e di volere, una patologia che causa sofferenze fisiche e psicologiche che la persona che chiede di morire giudica intollerabili) e ci sarebbe una legge decente. Poi dovremmo anche parlare della eutanasia vera e propria, consapevoli del fatto che se siamo davvero liberi, allora dovremmo esserlo anche se abbiamo bisogno dell’aiuto di un medico per morire. La premessa è facile e le implicazioni ovvie. Poi naturalmente ci sarebbero da discutere condizioni e verifiche, ma senza rimandare e senza un atteggiamento paternalistico.