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I ricorsi al Tar hanno sempre un loro perché. Anche quando invecchiano senza essere decisi; e perfino quando sono proposti, per non essere decisi, perché a chi li propone basta così. Invece la disciplina vigente parla proprio di “smaltimento dell’arretrato”, e le parole tradiscono il vero pensiero dietro le norme. L’obiettivo non è decidere, è smaltire.
Non importa se i modi dello smaltimento contrastano con i principi. Non importa se il ricorso da smaltire viene sottratto al suo giudice naturale – il Tar al quale è stato proposto – e finisce invece a un collegio che di quel Tar ha solo il nome ma nessuno dei componenti. Un collegio casuale, formato da giudici amministrativi di varia provenienza, accomunati solo dall’essersi resi disponibili a quell’impegno straordinario pagato a parte, a cottimo, e che si aggiunge al carico ordinario del loro lavoro (fissato peraltro dagli stessi giudici amministrativi come limite invalicabile perché non si abbassi la qualità delle sentenze). Un collegio, quello per lo smaltimento, che non ha alcun legame con l’ambito territoriale del contenzioso, e rispetto al quale non puoi contare che conosca la legislazione regionale (che pure, nel diritto amministrativo, non è irrilevante).
Un collegio innaturale che segue un rito innaturale. Qualsiasi cosa succeda, un rinvio non verrà concesso: creerebbe arretrato. Difficile dire che il giudizio amministrativo resta nella disponibilità delle parti. E puoi anche chiedere di discutere, ma non pubblicamente: l’udienza è solo telematica, come si conviene a un collegio virtuale.
Sia chiaro, tutto si spiega. C’è il Pnrr, serve un risultato quantificabile e raggiungibile che giustifichi quei finanziamenti. Ma l’arretrato non è il problema più serio della giustizia amministrativa. E comunque la sua soluzione non è questo “smaltimento”. La soluzione è l’istanza di prelievo – recentemente potenziata – con cui spieghi al giudice le ragioni per cui è urgente decidere una causa. E poi nel processo amministrativo c’è pure un meccanismo a tempo di “pulizia” dei ruoli: la perenzione quinquennale. Passati cinque anni, la causa scompare se la parte non dichiara che ci tiene ancora.
Inutile però farsi troppi problemi, è andata così: abbiamo individuato un obiettivo (lo smaltimento dell’arretrato) e messo in piedi un sistema per raggiungerlo ( una specie di doppio lavoro dei giudici amministrativi). A questo punto chiudiamo, incassiamo e torniamo alla normalità.
Ma ci si può far prendere la mano. Il sistema dello smaltimento, va detto, ha sì una base legislativa, ma è delegato al giudice amministrativo. Che ha una lunga storia e una grande competenza; ma che è da starci un po’ attenti se scrive da solo le norme che lo riguardano.
E qualcosa non va, se i ricorsi finiscono sempre prima nell’“arretrato”. Eppure è quello che sta succedendo: le ultime indicazioni del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa sono nel senso di smaltire non più i ricorsi pendenti al 31.12.2019 – come da norma di base – ma i ricorsi con più di tre anni ( in primo grado) o con più di due anni ( in appello). Non va: prima diventa “arretrato”, prima un ricorso si avvia al macero. Il giudice deve decidere il contenzioso, non azzerarlo.
Del resto, allargarsi è umano. Avviene, ad esempio, anche per la sinteticità degli atti. È nel processo amministrativo che si è posta la regola: gli atti vanno redatti in maniera chiara e sintetica. Ha fatto scuola, e ora c’è anche nel processo civile. Ma nell’amministrativo tutto ruota attorno a un decreto del Presidente del Consiglio di Stato, delegato a stabilire limiti dimensionali e criteri. Il risultato è una normativa in cui – a differenza del processo civile – spetta al giudice autorizzare atto per atto qualche frase in più, esaurendo comunque il suo compito di lettura allo scadere dell’ultimo carattere consentito. La sinteticità è un valore, d’accordo; ma qualcosa stride se è il mio giudice a dirmi quanto devo scrivere, cioè quanto lui dovrà leggere.
E poi il problema è più generale della lunghezza degli atti. Tutti ci troviamo immersi in un mare di troppe parole. Nel nostro mondo sono prima di tutto le amministrazioni ad essere diventate dei produttori compulsivi di parole. Fino al 1990 non avevano neanche l’obbligo di motivare i loro atti. Ma ora che le possibilità tecniche lo consentono, è un fiorire di atti amministrativi sempre più lunghi e complessi.
Il punto è che le parole non sono autosufficienti: una motivazione può essere costruita con cura, ma se non corrisponde a elementi reali resta vuota. Il giudice amministrativo è in grado di accorgersene? Questa è la sua vera sfida: non fermarsi alle parole, non ripeterle in sentenza solo perché ben scritte negli atti sottoposti al suo giudizio senza averle valutate nella loro rispondenza alla realtà.