Nella conferenza di fine anno la presidente Meloni ha voluto espressamente confermare che il presidenzialismo alla francese è un priorità della legislatura, e ha rafforzato tale affermazione esprimendo il desiderio che questa possa essere la sua “eredità”. Parole molto impegnative da parte di una personalità politica che, soprattutto nella veste istituzionale che ricopre, non è solita indulgere ad affermazioni enfatiche.

Il tema delle riforme istituzionali è dunque nell’agenda politica e lo è con una precisa scelta di campo, il semi- presidenzialismo alla francese. Tale scelta, nelle parole della premier, non avrebbe carattere ultimativo. Per Meloni, infatti, si tratterebbe solo dell’opzione con più chances di riuscita giacché sarebbe la “più condivisa”.

A questo punto, come usa dire, la domanda sorge spontanea: “Più condivisa da chi?”. Alla domanda istintivamente verrebbe da rispondere che il riferimento sia alle forze politiche. Del resto siamo una democrazia rappresentativa e, com’è noto, le riforme si fanno in Parlamento secondo una procedura stabilita dalla Costituzione ( art. 138). Peraltro, al di là della verifica sulle “condivisioni” che si potranno realizzare in questo Parlamento, la storia istituzionale ci ricorda un precedente nel quale presidenzialismo e condivisione si sono effettivamente incontrati. Si tratta del progetto della Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema nel 1998, con il quale fu approvata a larga maggioranza una proposta orientara proprio a quel tipo di riforma.

Ma il precedente D’Alema è a doppio taglio. Perché dimostra che la condivisione ( iniziale) delle forze parlamentari non basta. Chi ricorda quella vicenda, infatti, sa bene come andò a finire. Il patto che era stato siglato intorno a quella soluzione si ruppe qualche mese dopo il varo del progetto e la riforma naufragò irrimediabilmente. Di rotture dei patti per le riforme, purtroppo, la nostra storia è piena, fin dai tempi della Commissione Bozzi.

Il tema della condivisione insomma è molto problematico, così come complesso è il tema delle riforme istituzionali che, negli ultimi cinquant’anni, ha visto un unico, costante e ineluttabile esito: il fallimento. Fallimento delle iniziative condivise, ma anche fallimento delle iniziative di maggioranza; e fallimento di ogni metodo che è stato adottato: comitati di studio, commissioni bicamerali, procedimenti speciali previsti da leggi costituzionali ad hoc, procedimento costituzionale ordinario in base all’art.

138. Al di la della “riduzione del numero dei parlamentari”, nessuno dei nodi che rendono il nostro sistema di governo così fragile, ingovernabile e impotente è stato sciolto. Mentre l’astensionismo cresce anche perché, come dicono le ricerche demoscopiche, i cittadini si sentono spesso ospiti inutili e impotenti di una democrazia in cui la loro volontà conta poco o nulla.

Vi è dunque, purtroppo, una storia di condivisioni parlamentari che si sono dimostrate insufficienti e un solco sempre più grande tra politica e cittadini, i quali “condividono” sempre meno, per non dire nulla.

Questo quadro, un po’ scoraggiante, non è però l’indicatore di un destino ineluttabile o di un sortilegio abbattutosi inspiegabilmente su di noi. È frutto di cause ed effetti. Il primo dei quali è la divaricazione tra tempi delle riforme e litigiosità della politica.

La politica di una democrazia dell’impotenza, come quella italiana, vive soprattutto di “litigi”, di rotture, di crisi. Quello è l’unico modo attraverso il quale i partiti riescono a conservare la propria ragion d’essere. Non essendo possibile, per le ragioni strutturali che conosciamo, realizzare le promesse, l’unica cosa che resta da fare è differenziare la propria identità per non perdere consenso. Non potendo rivendicare il fare, si rivendica il disfare. Esisto perché sono contro.

Questo schema rende le riforme istituzionali impossibili, perché, quand’anche si riesca a trovare una “condivisione” iniziale, i tempi per realizzare riforme complesse sono

talmente lunghi che, prima o poi, le convenienze cambiano e le stesse “condivisioni” non sono più politicamente… convenienti. Meglio dividersi e mettersi gli uni contro agli altri per misurare ( e conservare) la propria forza, la propria identità e il proprio consenso. La vicenda segnata dal patto del Nazareno di Berlusconi e Renzi tra il febbraio 2014 e il dicembre 2016 ( un’era politica, per il paese dei governi poco più che annuali) ha offerto un copione classico che ha avverato una facile profezia: il fallimento.

Ciò non significa che le cose non possano cambiare, e che oggi non possa essere la volta buona. Anzi, per una serie di circostanze, che non sono certo merito delle regole istituzionali, ci troviamo in una situazione in cui esiste una maggioranza legittimata dal voto popolare, la quale potrebbe, se lo vorrà, cercare di imprimere una svolta, quantomeno costringendo le forze politiche a misurarsi con questi temi. Ma tutti sanno, e certamente lo sa la Presidente Meloni, che la convinzione che fosse “la volta buona”, purtroppo, si è frantumata già tante volte nel passato. Certo una forte volontà politica di non sprecare le opportunità di cambiamento è fondamentale. Dopodiché è necessario creare le condizioni per cui concretamente le riforme si facciano, e su quel piano, come dicevo, la storia è lastricata di fallimenti.

Ci vorrà molta determinazione e molta fantasia per cambiare lo schema di gioco che ha condotto, sempre, a quei fallimenti.

Da tempo sostengo che sarebbe necessario far precedere l’impegno riformatore da una forte legittimazione popolare su una precisa proposta. Del resto i nostri padri costituenti affrontarono così il problema quando si trattò di scegliere tra monarchia e repubblica. Un scelta divisiva che avrebbe probabilmente paralizzato l’assemblea costituente. E ci volle l’intelligenza e il coraggio di De Gasperi per cambiare lo schema di gioco originariamente previsto. Si fece un referendum preventivo e la questione fu risolta.

La domanda è se la classe dirigente di oggi ha risorse di coraggio e fantasia paragonabili a quelle che mostrò De Gasperi in quell’occasione.

Perché anche oggi, io credo, una spinta dal basso non è solo un’opzione: è una necessità di sistema. Perché la storia ci mostra che la “condivisione” tra le forze politiche non è stata mai sufficiente.

Tutti coloro che credono che l’Italia meriti di più debbono fare la propria parte, dentro e fuori dalle istituzioni ( tra questi per chi è interessato www. iocambio. it). Un referendum per scegliere quale riforma si vuole, per scegliere in che direzione andare, è un’opportunità per tutti, anche per coloro che non vogliono cambiare direzione.

La chiarezza aiuterebbe soprattutto chi poi le riforme dovrà farle. Sia perché eviterebbe anni di dibattiti che si risolvono nel nulla perché le proposte alla fine sono bocciate dal popolo nel referendum finale. Sia perché chi le promuove in Parlamento saprebbe che la “condivisione” va molto al di là dei fragili accordi tra partiti, ma si estende e si fonda sulla volontà di coloro che, in democrazia, in ultima istanza, legittimano le loro scelte.

*Il costituzionalista dell’università Tor Vergata ed editorialista del Dubbio, autore di questo intervento, è il promotore di “Io Cambio”, il movimento nato con l’obiettivo di raccogliere le firme su una proposta di legge con cui indire un referendum preventivo su una riforma del sistema istituzionale italiano ispirata al modello del semipresidenzialismo alla francese