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Giorgia Meloni, presidente del Consiglio dei Ministri
La presentazione del progetto di legge costituzionale sul c.d. Premierato, al di là del merito - di cui oggi non mi occuperò - ha già scatenato una ridda di reazioni.
È una buona notizia. Perché quando l’opinione pubblica si attiva e si confronta anche aspramente, dimostra che la democrazia è sana.
Ancor più sano è che, a questo dibattito, prendano parte gli esperti, perché le loro opinioni possono arricchire un confronto che riguarda tutti, ma che presenta inevitabilmente elementi notevoli di tecnicità. Del resto ogni decisione pubblica, soprattutto quelle più importanti e significative, è spesso anche altamente tecnica. In questo caso, però, non può essere lasciata solo a chi se ne intende, perché si tratta soprattutto di una decisione politica, destinata, tra l’altro, a interpellare tutti i cittadini nel, probabile, referendum approvativo finale.
È la democrazia bellezza! Si potrebbe dire. Quel sistema in cui il voto dell’analfabeta e del premio Nobel hanno politicamente esattamente lo stesso peso. Può piacere o no, e a una certa corrente di pensiero elitista non piace, ma se si vuol restare nel peggiore dei sistemi possibili (se si escludono gli altri) come ricordava Churchill, bisogna farsene una ragione. Lo ricordava De Gasperi, quando prese l’iniziativa di sottoporre a referendum la scelta tra monarchia e repubblica, in un paese affetto ancora da un altissimo analfabetismo.
Scriveva De Gasperi il 12 novembre 1944 a Luigi Sturzo «i socialcomunisti opposero una tenace resistenza [all’ipotesi del referendum], obiettando che il popolo italiano non maturo per un tal voto». Lo statista democristiano, invece, la vedeva in modo assai diverso: «per me il referendum ha un grande valore morale, perché dà il senso democratico e pacificatore di una suprema decisione popolare e di un consenso esplicito della maggioranza alla nuova forma di Stato».
Il fatto che la democrazia trovi nel principio “una testa , un voto” il proprio architrave non significa escludere, ma anzi impone, che l’opinione di chi vota possa formarsi attraverso la conoscenza e il dibattito. E da questo punto di vista le riflessioni degli “esperti”, in questo caso dei costituzionalisti soprattutto (ma non solo), sono vitali.
Bene dunque che si intervenga e non ci si stanchi di intervenire. Vi è un punto però che va sottolineato, proprio nel momento in cui questo processo decisionale prende le mosse. E il punto riguarda la delicatissima responsabilità, nel dibattito pubblico, proprio dei tecnici. Perché anche gli esperti sono cittadini e hanno le proprie opinioni su ciò che sarebbe meglio fare o non fare. L’essere cittadini ed esperti li mette in una difficile posizione, di cui loro stessi dovrebbero essere sempre consapevoli, oltre che rendere edotto chi li ascolta.
La difficile posizione sta nel fatto che essi possono vivere un conflitto tra la propria valutazione tecnica e la propria valutazione politica. Ad esempio, tanto per entrare subito nel cuore del problema, come cittadino io potrei essere radicalmente contrario al premierato (ritenendo, per esempio, maggiormente opportuno lasciare le cose come stanno o scegliere un’altra idea di riforma), ma, come tecnico, potrei dover riconoscere che le soluzioni proposte sono coerenti, o abbastanza coerenti, rispetto al fine politico che si vuol perseguire. Così come potrei essere un fan sfegatato del premierato e nello stesso tempo dover ammettere che quelle soluzioni tecniche non sono appropriate, non consentono di conseguire l’obiettivo, sono, come qualcuno ha detto in questi giorni, “pasticciate”.
Questa operazione di “sdoppiamento” non è per niente semplice e nello stesso tempo non può essere evitata, pena un uso oggettivamente strumentale e opportunistico del proprio ruolo di esperti, che non aiuta l’opinione pubblica, ma anzi la fuorvia, propalando come “scientifico” ciò che è solo frutto di una legittima opinione politica, travestita da responso tecnico.
E questo pericolo è tanto più grande quando parliamo di materie che sono molto vicine alla politica e allo scontro nella politica. Qui non si tratta di dibattere di un protocollo medico-sanitario, si tratta di come organizzare la vita pubblica.
Del resto il rischio esiste da sempre, proprio per i tecnici delle istituzioni, a cominciare dai costituzionalisti. Quasi settant’anni fa, uno dei più grandi giuristi del XX secolo, Hans Kelsen, nell’introduzione all’edizione del 1960 della sua fondamentale opera La dottrina pura del diritto, esortava a non dimenticare la problematicità del rapporto tra «scienza giuridica e politica». Così, mentre invocava la necessità di una «netta separazione dell’una dall’altra», si scagliava contro la «radicata abitudine di sostenere, in nome della scienza del diritto (e quindi richiamandosi ad un’istanza “oggettiva”), esigenze politiche che possono aver soltanto un carattere estremamente soggettivo, anche se si presentano, nella miglior buona fede, come l’ideale di una religione, d’una nazione o di una classe». Perché, concludeva amaramente, anche il giurista ha i suoi interessi e «rinuncia malvolentieri a credere e a far credere agli altri che egli, con la sua scienza, possiede la risposta al quesito di come possano essere risolti “giustamente” i conflitti di interessi all’interno della società».
Questi ammonimenti non vanno dimenticati, soprattutto, oggi. All’avvio di un processo che già spinge a radicalizzare le posizioni e dividersi in squadre e tifoserie. È già successo in passato e sappiamo com’è andata. Non si è fatto nulla. Il che certamente fa gioco a chi ritiene (per convinzione o per interesse) che non si debba fare nulla, salvo poi snocciolare giaculatorie sullo stato comatoso della politica italiana, dei partiti e sul destino disperato di un paese in cui “tra un po’ non vota più nessuno”.
Quali anticorpi rispetto al rischio che i c.d. esperti, anziché aiutare la formazione dell’opinione pubblica, finiscano per fare “gli interessi propri” presentando come scienza, ciò che è solo un’opinione ben vestita?
Il primo anticorpo sarebbe certamente l’onestà intellettuale, ma quella non la si può pretendere. Anche perché la polarizzazione radicale delle posizioni, il fazionismo dilagante, induce anche nel giurista la pericolosa ambizione che avrà tanti più fans quanto saprà compiacere una delle tifoserie, sostenendo “autorevolmente” quello che la tifoseria non vede l’ora di sentire.
Il secondo antidoto, forse più efficace, è quello della diffidenza. Chi ascolta gli esperti, tra i quali anche chi scrive, ovviamente, deve coltivare lo spirito critico della diffidenza, esser consapevole che, come esiste l’informazione di qualità, esiste anche la disinformazione di qualità. Alcuni indicatori possono essere utili. Ad esempio non bisogna dimenticare che, in questa materia, le soluzioni, qualsiasi soluzione, è sempre imperfetta e dunque perfettibile. Lo era la Costituzione del ’48 a detta dei suoi stessi autori, figuriamoci un progetto che punta a realizzare un cambiamento così significativo in una temperie assai diversa.
Ma se si ha questa consapevolezza, la prima diffidenza va rivolta a chi evoca soluzioni salvifiche o, al contrario, destini apocalittici. A chi induce a credere e a far credere, spesso con toni oracolari, che siamo di fronte a scenari manichei in cui il bene e il male si confrontano nella lotta finale. “Anche meno”, dicono i ragazzi.
Nel suo libro del 1980, intitolato Una Repubblica da riformare, Giuliano Amato, a proposito di chi contestava la proposta socialista di elezione diretta del presidente della Repubblica, replicava «nessuno può essere, in coscienza, tanto manicheo da ritenere che in tal modo si voglia accantonare il garantismo, rinunciando alla legalità in nome di una legittimità ritrovata».
Ecco, questa mi sembra una buona indicazione di metodo. Per il dibattito in generale e per quello animato dai costituzionalisti. Ai quali non è impedito certo di avere preferenze, ma, se le hanno, si impone di dichiararle apertamente e senza infingimenti. Perché se la credibilità delle posizioni, quando si parla “in quanto tecnici”, non sarà libera dai condizionamenti del cittadino appassionato o dall’interesse personale, dal compiacimento dell’adulazione o dalla speranza di una tifoseria riconoscente, essi, noi tutti, siamo condannati, non solo a tradire l’etica professionale, ma anche a diventare insignificanti, in quanto percepiti, volenti o nolenti, come dei faziosi in doppiopetto.