Il quadro rappresentato nell’introduzione a questo seminario è interessante e suggestivo, ma la realtà del carcere rimane drammatica. Abbiamo questioni legate a più problemi: sovraffollamento, necessità di intervenire nell’organizzazione del carcere, necessità di individuare una politica penitenziaria, di assicurare efficienza nell’organizzazione, necessità di formazione del personale, di tutelare la salute e di migliorare le condizioni della qualità della vita in carcere. Questi problemi richiedono un intervento a diversi livelli: infatti la storia del carcere come pena emblematica è legata al progressivo percorso della pena come vendetta pubblica, che si sostituisce a quella privata, e al discorso della “rieducazione” e alla tolleranza di una giustizia riparativa che si sta cercando di portare avanti.

La costituzionalizzazione del sistema penale ci pone di fronte a due alternative: l’alternativa della punizione e riparazione; l’alternativa della riconciliazione tra il colpevole, la vittima, la società. Questo discorso ha subìto uno stress molto pesante attraverso le tematiche della pandemia, ma vediamo di risistematizzarle. La pandemia ci ha consegnato due profili di diseguaglianza e di contraddittorietà: da un lato la solitudine degli anziani e, dall’altro, la solitudine dei detenuti.

Questo fa venire in mente un tema di fondo della saggezza africana che ci dice che “quando muore un vecchio è come se bruciasse una biblioteca”, e questo è un discorso interessante anche sotto il profilo del lavoro che la Rete delle Scuole Ristrette sta facendo, e di uno dei traguardi che vi state ponendo, quello di una biblioteca in ogni carcere. È un discorso che si collega direttamente al tema della cultura in carcere e al tema dello studio in carcere, perché l’altro tema che evocate è quello del rischio che la scuola e la cultura vengano compresse.

Ciò risulta da alcuni esempi come quello dell’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna, nella quale, per motivare il rifiuto della detenzione domiciliare per ragioni di salute a un detenuto appartenente alla criminalità organizzata, si aggiunge anche che, avendo preso una laurea e conseguito un master in carcere, questo avrebbe potuto acuirne la pericolosità. Questo discorso dello stress della pandemia e dei problemi che si pongono oggi in carcere va confrontato con una Costituzione che, pur avendo settantacinque anni, è estremamente attuale. All’Art. 2 ci parla dei diritti inviolabili, ma anche dei doveri inderogabili di solidarietà che devono svolgersi con riferimento alla vita, sia del singolo in quanto tale, sia del suo divenire persona attraverso le “formazioni sociali”, e il carcere è una “formazione sociale”.

Poi l’Art. 3 ci parla di pari dignità di tutti compresi i “diversi” che stanno in carcere e integra l’Art. 27 della Costituzione che pone due fini al carcere, la tendenza alla rieducazione e il rispetto del senso di umanità. Altre norme contenute nella Costituzione e collegate alle precedenti sono l’Art. 32 sulla salute, l’Art.33 sul diritto all’istruzione, gli Articoli 34, 35 e seguenti sul diritto al lavoro. Un discorso, questo, che deve tener conto dell’amplissimo sviluppo tecnologico che ha accompagnato quest’ultimo periodo e del rischio che in questo contesto le risorse tecnologiche a disposizione per la gestione del carcere, finiscano per comprimere i profili di libertà e di sicurezza che la Corte Costituzionale chiama “residui di libertà”, con un termine che a me non piace molto perché in questo momento è essenziale nella prospettiva di una logica di efficienza e di profitto.

Qual è, dunque, il nuovo modo di affrontare il carcere che sembra garantisca e assicuri grosso modo a un 30% di persone di non avere recidiva e non tornare in carcere. È possibile cambiare questa prospettiva? Serve ancora il carcere come viene gestito e utilizzato da noi in Italia? Qual è lo spazio che la cultura può e deve avere in un carcere di questo genere?

Il problema di fondo è trovare un equilibrio tra i termini di libertà e di sicurezza, attraverso la responsabilità, perché si dimentica troppo spesso che le connotazioni essenziali di sviluppo della persona, nel passaggio dall’individuo come singolo alla sua realtà di persona con gli altri, sono tre: la dimensione dello spazio fisico affettivo familiare sociale; la dimensione reale e virtuale; la dimensione culturale. Basta pensare al tema dell’architettura in carcere nel quale la “cella” non può essere ridotta a un problema di metri quadri o di discussione in Cassazione se i servizi debbano essere computati nei minimi di spazio previsto dalle regole penitenziarie.

Anche l’ergastolo è una pena incostituzionale per come è proclamata “fine pena mai” e che diventa costituzionale solo nella misura in cui, a un certo momento, interviene la possibilità di farlo cessare, seppure dopo un determinato tempo e con verifica del recupero della responsabilità della persona. Un ergastolo con “fine pena mai” o nel quale l’unico modo di uscire sia la “collaborazione” a me sembra abbia pesanti dubbi di costituzionalità. La dimensione tempo spazio, che nel carcere viene ampiamente sacrificata, è una dimensione che va affrontata e va tenuta presente proprio per passare da quella concezione della pena come “retribuzione” detta sociale, alla pena come “riparazione” e recupero di responsabilità.

Quindi entra in gioco anche l’articolo 9 della Costituzione, quello che parla dell’ambiente ma, soprattutto, del passato e del futuro della persona: la Repubblica tutela il patrimonio pubblico e artistico, ma la Repubblica tutela anche il progetto del futuro e dell’ambiente, e questa tutela è realizzata anche, sempre attraverso l’articolo 9, per la cultura, che è la chiave per capire il passato e progettare il futuro in una quotidianità che dovrebbe umanizzare il carcere. Nella pronuncia del Tribunale di sorveglianza di Bologna, si dice con parole pesanti e ben motivate, senza entrare nel merito del diniego della detenzione domiciliare, che conoscere e studiare possono aumentare la capacità criminale del detenuto: si arriva al paradosso che le madri non diranno più ai figli! studia perché altrimenti vai in carcere” ma “non studiare perché altrimenti vai in carcere”.

Pende ancora oggi un ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo proprio su questo profilo di motivazione, per capire se si può in questo modo intervenire e limitare la libertà personale con una limitazione connessa allo studio e alla capacità e alla possibilità di studiare. In un contesto in cui io credo sia assolutamente necessario, invece, assicurare in carcere uno spazio molto ampio di cultura che possa aiutare a integrare e, in qualche modo, riparare le diminuzioni inevitabili che la pena porta alle altre dimensioni: esterne, spaziali, temporali. Evidenziare il rapporto con la pandemia è necessario proprio perché si è arrivati a sostenere che il carcere era il luogo più sicuro per non contrarre il Covid 19.

Paradossalmente la situazione migliore diventava quella del 41 bis: non vedi nessuno, non incontri nessuno, non hai contagi. Mi lasciava molto perplesso la differenza tra chi era “fuori” e chi era “dentro”, perché a chi è fuori viene impedito il contatto sociale, viene imposto il distanziamento sociale, vengono vietati gli assembramenti, si limita la libertà di circolazione delle persone. Chi è dentro il carcere, invece, è sottoposto a una situazione di convivenza coatta, e tutto questo ci rivela un problema di fondo: che occorre portare la cultura in carcere, ma, prima ancora, bisogna portare il carcere nella cultura, cioè bisogna far capire alle persone che il carcere non è né un hotel a cinque stelle, né una tomba nella quale isolare la persona buttando la chiave.

Questo è il discorso che mi pare essenziale e che porta, per quanto riguarda la dimensione esterna al carcere, alla necessità di accettare il rischio che chi sconta la pena al di fuori del carcere torni a commettere reati. Potrebbe farlo, bisognerebbe far di tutto, però, per non fargli sentire quel sentimento di solitudine all’uscita, anche se non si può impedire il rischio di una recidiva. Però, poi, la cultura deve entrare non solo fuori per far capire cosa è il carcere, ma deve entrare dentro il carcere utilizzando la scuola, che è un diritto fondamentale per tutti, perché cultura vuol dire evitare che il decorso del tempo, la mancanza di lavoro, aggravi la situazione di chi sta subendo una grave penalizzazione di quelle caratteristiche spaziali e temporali.

La cultura giuridica, a proposito della pena carceraria, ha attraversato quattro fasi: 1) la pena è stata in un primo momento la vendetta pubblica che sostituiva la vendetta privata; 2) poi è diventata un problema di rapporto tra il colpevole e la vittima, il risarcimento del danno alla vittima e alla società, secondo la logica che a dolore si risponde con dolore; 3) poi è arrivata la rieducazione, dove il carcere deve portare la persona, che ha commesso un reato e ha subito una pena, a poter rientrare nella società; 4) l’ultimo stadio, quello più importante cui stiamo puntando, è quello della riparazione del danno. Lo stress della pandemia ha creato grandi problemi sotto questo profilo: io mi auguravo che la pandemia potesse destare sentimenti di maggior solidarietà nei confronti di chi è dentro il carcere. Non è stato così, anzi, c’è stata una serie di iniziative, soprattutto a livello di una opinione pubblica succube di una strumentalizzazione che evocava liberazioni di massa della criminalità organizzata e via dicendo.

Ho l’impressione che proprio questo abbia portato a quella differenza di trattamento e diseguaglianza che, se per gli anziani vedeva come traguardo la morte in solitudine, senza poter avere vicino i parenti per poter evitare il contagio, per i detenuti vedeva carcere, carcere, e ancora carcere perché lì sono tranquilli e non prendono il contagio, non avendo rapporti con l’esterno, senza considerare che il sovraffollamento continuava a operare come prima, anzi, più di prima. Situazione paradossale quella della pandemia che ha portato alcuni a dire “gli anziani in solitudine, i detenuti in carcere, i ragazzi non a scuola, le donne in casa, i migranti e i profughi fuori dai piedi”. Questo è il rischio che abbiamo subito e stiamo subendo con la pandemia. Ricorderete tutti che vi era stata una tendenza ad affrontare il problema del carcere attraverso gli Stati generali dell’esecuzione penale, attraverso un’analisi fin troppo ampia di tutti i problemi connessi alla realtà carceraria, con un serie di incontri di commissioni di studio che avevano lavorato per circa un anno: aveva prodotto dei risultati che sono, però, naufragati, con il cambio di maggioranza e le nuove elezioni.

Adesso vi è un’altra iniziativa che io seguo con grande attenzione e interesse, quella cioè di chi propone di intervenire sul carcere (se non riusciamo a intervenire con le leggi) nella quotidianità penitenziaria, un intervento sulle regole amministrative e cioè su tutte le regole della vita all’interno del carcere, con la possibilità di modificare - anche tenendo conto della tecnologia che ha fatto passi da gigante - e di risolvere i problemi della sicurezza e dell’ordine in carcere attraverso tecniche che rispettino quel minino di spazio, di privacy che ognuno deve avere anche in quella sede (commissione Ruotolo).

Accanto a questo si pongono il problema della salute, quello della tutela dei diritti che non sono “residui di libertà”, ma sono i diritti fondamentali che spettano a coloro che siano stati privati, anche giustamente, della libertà. Questo discorso è estremamente importante per quanto riguarda l’istruzione in carcere, perché l’istruzione deve tutelare la pari dignità sociale che lo Stato deve assicurare a tutti, anche ai cosiddetti “diversi”.

Il carcere non è una discarica sociale nella quale rinchiudere le persone gettando la chiave, il carcere è una privazione che deve essere temporanea, nella quale la libertà viene sacrificata, ma che dovrebbe essere limitata a chi veramente ha caratteristiche o momenti di aggressività o di pericolosità per gli atti commessi, e non adottata come misura indiscriminata in un sistema che sta sempre più diventando panpenalistico, perché pensa di risolvere il discorso del “dissenso sociale” solo ed esclusivamente, o principalmente, attraverso il carcere. È un discorso che trova riscontro anche a livello europeo nelle regole penitenziarie, un discorso che è stato ampiamente discusso nella commissione del prof. Ruotolo che ha concluso recentemente i propri lavori, attraverso la necessità sottolineata di migliorare il tempo della pena attraverso le prospettive di uno sviluppo mediante il lavoro e l’istruzione.

Mi auguro che non ci si limiti a parlare di questo discorso senza affrontarlo concretamente, mi sembra che l’idea di andare a cercare le modifiche nella quotidianità sia un primo passo abbastanza importante, ma mi sembra, soprattutto, che occorra attuare quel discorso di portare la cultura in carcere, le biblioteche in carcere, portando nella cultura di questo paese - cosa che in questo momento manca profondamente, anche per quei motivi che portano a privilegiare la sicurezza sulla libertà - un carcere a dimensione umana e, soprattutto, un carcere come extrema ratio, proprio quando non se ne può fare a meno. (*presidente emerito della Corte Costituzionale)