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Riassumiamo i fatti. Prima un tabloid semi scandalistico e poi i principali quotidiani hanno pubblicato, con tanto di immagini del colloquio in carcere, le intercettazioni di un incontro avvenuto il 3 dicembre dello scorso anno tra Filippo Turetta e i suoi genitori.
Le parole rivolte in carcere dal padre al figlio hanno suscitato un comprensibile disagio e violente critiche. Vi era in quelle parole una banalizzazione dell’atroce delitto commesso. Ogni anno ce ne sono 200 come te, hai avuto un momento di debolezza, non sei un mafioso, non sei un terrorista, così si legge. Parole assai poco rispettose dei familiari della vittima e di tutte le vittime di reati di questo genere. L’attenuante per questo approccio disastroso è il fatto che è avvenuto durante il primo colloquio con il figlio in carcere dopo l’estradizione, forse nel timore di gesti autolesivi, e che il padre ha mostrato subito di aver compreso il suo errore.
Ma non è solo questo il punto. Qual è il rilievo delle trascrizioni di quel colloquio in carcere rispetto al processo per l’omicidio di Giulia Cecchettin che inizierà dinanzi alla Corte d’assise di Venezia il 23 settembre ? Praticamente nessuno. Filippo Turetta è reo confesso e ha chiesto anche di saltare l’udienza preliminare per essere giudicato subito dinanzi alla Corte d’assise, che di quel colloquio non si farà nulla. Eppure chi ha pubblicato il dialogo avvenuto in carcere non ha carpito la trascrizione in modo illegittimo ma semplicemente l’ha trovata, certo con il suggerimento di qualcuno, negli atti del fascicolo. Giustamente alcune associazioni di avvocati penalisti hanno sottolineato che i dialoghi pubblicati erano privi di qualsiasi esigenza investigativa e quindi non dovevano nemmeno essere trascritti. Perfino l’Ordine dei giornalisti, di norma cauto quando si discute del comportamento dei suoi iscritti, ha ricordato che vi è il dovere di distinguere l’essenziale per la comprensione dei fatti dall’incursione, gratuita, nel dramma di genitori di fronte a un figlio che ha commesso un crimine terribile. Anche il difensore della famiglia Cecchettin ha mostrato perplessità sulla pubblicazione di quel colloquio che non aggiunge nulla processo. Eppure così è stato, con l’effetto di trasformare una vicenda dolorosa nella scena di un processo-spettacolo, a beneficio di qualche giornalista spregiudicato in cerca di scoop estivi. L’Anm e il Csm invece, è bene ricordarlo, che intervengono sempre su tutto, sinora hanno taciuto.
Non sono sempre d’accordo con le proposte del ministro Nordio. Comunque l’ultima proposta di legge approvata definitivamente proprio pochi giorni fa, il 10 luglio, ha posto ulteriori restrizioni alla divulgazione delle intercettazioni e ha ampliato l’obbligo di vigilanza del Pubblico Ministero, imponendogli di “stralciare” le intercettazioni irrilevanti ai fini delle indagini quando siano relative anche a soggetti, come in questo caso, diversi dalle parti. Una vigilanza che spesso è mancata, dimenticando che indagini e intercettazioni devono servire solo a cercare la prova di un fatto e non a carpire e rendere pubblici i pensieri, giusti, sbagliati, anche sbagliatissimi, di persone non coinvolte. Ci sono semmai spazi di dibattito pubblico in cui affrontare questioni delicate, quali la prevenzione della violenza contro le donne e la rieducazione di chi si è reso responsabile di un gravissimo delitto, spazi ben diversi dalla pubblicazione, una cronaca morbosa e indecente per tutti, di colloqui in carcere.
Cosa può aver indotto a infilare negli atti una conversazione del genere? A pensar male, forse è la conseguenza di un desiderio sempre latente, quello di aumentare con ogni mezzo la visibilità di un processo, peraltro già molto alta. Una patologia di cui la nostra giustizia non riesce a liberarsi. E chi l’ha resa possibile ci dovrebbe riflettere.