Lasciamo stare i paragoni, le similitudini, gli accostamenti. E soprattutto le puerili graduatorie su chi fosse il “più forte”, in quelle dispute tra supereroi che ci fanno sentire eterni bambini, chi vincerebbe in uno scontro tra Hulk e Iron Man, e tra Superman e Thor?

Pelè è semplicemente imparagonabile a chiunque altro, forse perché non veniva da questo mondo, da questo sistema solare o, forse ancora, non veniva neanche dal suo tempo ma dal futuro: basta guardare le immagini di lui che sfreccia sul campo circondato dai “normali”, sembrano un trucco di computer grafica, con questa freccia che va più veloce di tutti, con la palla sempre incollata ai piedi quasi vittima di un sortilegio.

È piombato sulla terra in un giorno di ottobre del 1940 quasi un messo degli dei del calcio, a sua volta un semidio a cominciare da quel nome che non è un nome ma un grido ancestrale, “Pelè” che per decenni ha schioccato sulla lingua di milioni di ragazzini estasiati nei campetti di periferia: «E chi sei, meglio di Pelè?» si diceva un tempo a quelli bravi col pallone. Se per la fisica c’era Albert Einstein, per la musica Mozart, per il calcio c’era, lui, Pelé.

Tirava fuori cose che nessun altro aveva mai visto su un campo di gioco, il controllo orientato, il colpo di tacco col dribbling a seguire, il doppio passo, i tunnel, il sombrero (con cui a 18 anni segna un memorabile gol in finale di coppa del mondo), la rovesciata a bicicletta, il colpo di testa in sovraelevazione, il cosiddetto tiro a giro, gli assist con gli occhi “dietro la nuca”.

Fino alla sua apparizione il calcio era un altra cosa, più vicina al podismo con i suoi picchi di arte sparsi qua e là, piccole eresie che non modificavano il corso ordinario del pallone. Poi è cambiato tutto, altro che trasformazione graduale c’è stata una rottura improvvisa, una rivoluzione, incarnata da un solo uomo.

È vero, non ha mai giocato nei club europei, come dicono i pinocchietti, non si è mai confrontato con il calcio “che conta”, ma è una sciocchezza visto che negli anni sessanta e settanta le nazionali erano molto più competitive dei club (a lungo privi di stranieri) e il divario di velocità tra europei e sudamericani era ridotto. Che i suoi oltre mille gol realizzati in carriera non sono tutti documentati e altri luoghi comuni. Ma in fondo cosa contano i titoli, i numeri, il palmares, le statistiche quando stai parlando di qualcuno che viene da un altro universo?

Pelè non è un calciatore letterario, ma filosofico, è l’idea platonica del calcio che esce dalla caverna e illumina il nostro intelletto. “È” il calcio con il quale ha un rapporto di immanenza. Tutto il contrario di Maradona, attraverso il quale il calcio diviene una metafora potente della vita, un grumo di genialità e passioni, di riscatto e di orgoglio, un romanzo di formazione in cui il protagonista si perde nel labirinto delle scelte e sbagliate e degli errori, un antieroe tipicamente novecentesco stritolato dalla “società” ma nel suo rovescio virtuoso anche un acclamato eroe del popolo.

Logico che Diego piaccia di più agli scrittori e agli artisti che la sua umanità e la sua vita imperfetta ci facciano battere il cuore più forte.

Fuori dal campo Edson Arantes do Nascimiento non ha infatti compiuto nulla di memorabile, ambasciatore ingessato nel piatto mainstream comunicativo della Fifa non ha mai avuto guizzi, non ha espresso pensieri forti, rimanendo grigio e consensuale, poco più di una decorazione. Fuori dal terreno era un Clark Kent come tanti, forse come tutti noi, ma lì in mezzo al campo la luce delle sue impossibili acrobazie eseguite con eleganza aristocratica sfidando le equazioni della fisica e poi cambiandole per sempre era semplicemente sua maestà il calcio.