Il destino della cipolla, ovvero il costo politico dell’inflazione reso simbolo nello spot che ha portato l’alleanza repubblicana guidata da Kemal Kiliçdaroglu a un passo dallo strappare la leadership della Turchia a Tayip Erdogan, lo conosceremo solo il giorno del ballottaggio, fissato al 28 maggio. Saranno due settimane lunghissime, e il cui esito non è naturalmente scontato. Ma il governo userà tutti gli strumenti di cui dispone per orientare a suo favore il voto, in un Paese nel quale durante un ventennio Erdogan, oltre a ogni tipo di repressione del dissenso, ha posto sotto suo controllo diretto tutti i mezzi di informazione, la Corte costituzionale, e in buona sostanza anche l’apparato giudiziario.

Ma intanto, dei 600 seggi parlamentari (ad Ankara c’è il monocameralismo), Erdogan ne ha già presi 266: coi 51 dell’MHP della destra estrema che s’è ritagliata un ruolo da ago della bilancia, può avere la maggioranza. E il prezzo della cipolla continua a correre: l’inflazione, che nell’autunno scorso aveva toccato l’ 85 per cento, è tuttora al 45. Spiega bene l’alta affluenza alle urne: a votare, è andato all’incirca il 90 per cento dei 64 milioni di aventi diritto al voto. Ma è, soprattutto, proprio un effetto delle politiche di Erdogan: ha imposto alla Banca centrale turca - che non ha alcuna autonomia - continui ribassi dei tassi di interesse, affinché i turchi avessero l’illusione di una crescita economica a ciclo continuo.

Ma se con l’inflazione si fa il contrario di quel che fanno tutte le banche centrali del mondo, a cominciare da Fed e Bce, si scopre che davvero è come una cipolla: sfoglia sfoglia, sotto c’è sempre un altro strato, finché in mano non ti resta più nulla. E a poco serve - se non a mandare in default le casse pubbliche aumentare - del 100 per cento - lo stipendio dei pubblici impiegati, o abolire l’età in cui si va in pensione: per quanto si aumentino le entrate, con l’inflazione al galoppo la cipolla resta sempre irraggiungibile.

In ballo il 28 maggio c’è il ritorno dei turchi allo stato di diritto e alla democrazia liberale, e dunque a un nuovo appeasement con l’Occidente e l’Unione Europea in particolare. Il ritorno del futuro, si potrebbe dire, dopo la svolta autoritaria impressa da Erdogan, anche attraverso un contestato referendum con il quale nel 2017 introdusse il presidenzialismo. Lo fece perché solo l’anno prima, a Bruxelles le porte gli erano state sbarrate: le procedure di avvicinamento all’Europa la Turchia le aveva avviate alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, ma nonostante nel 2005 i negoziati di adesione fossero stati formalmente avviati a seguito di un apposito Consiglio Europeo, Merkel e Sarkozy fecero poi retromarcia, e con la Turchia - Paese che è già nell’Unione Doganale l’Europa avviò una semplice “special partnership”. E Erdogan cominciò a coltivare sogni da potenza mediorientale.

Oggi, anche se le urne detronizzassero il raiss, difficilmente potrebbe cambiare la sostanza della collocazione internazionale della Turchia. La cui volontà di potenza è stata messa in scena da Erdogan in un groviglio di contraddizioni, ma raggiungendo con spregiudicatezza il risultato di fare di Istanbul un irrinunciabile crocevia dei dossier internazionali più spinosi, e dunque un protagonista della scena internazionale a pieno titolo. Membro importante della Nato, che non può fare a meno delle truppe turche, ma capace di mettersi di traverso sull’allargamento dell’Alleanza a Svezia e Finlandia. Solida alleata nel Patto Atlantico, ma amica di Putin dopo un incidente diplomatico grave nel 2015- 2016. Amica di Putin, ma diligente sostenitrice della mozione Onu contro l’invasione russa dell’Ucraina. Fornitrice di droni a Kiev, e di droni che sono stati cruciali nella prima fase della guerra, quella stessa nella quale un giorno sí e un giorno no Erdogan annunciava presunte “trattative in corso” con Mosca, ma senza accodarsi alle sanzioni Onu. Bordeggiando con perizia le ambiguità, compresa la chiusura del Bosforo e di Dardanelli alle navi di Mosca, alla fine la Turchia è risultata indispensabile per contrattare con Mosca almeno uno stop alle ostilità: quelle che facevano marcire il grano ucraino. Il rapporto con il Cremlino non cambierà neanche se Erdogan uscisse di scena perché la Russia è il terzo partner commerciale della Turchia, e soprattutto il fornitore del 50 per cento dell’energia che muove l’intero Paese.

Della Turchia, Erdogan ha risvegliato la volontà di potenza anche allacciando i rapporti con Israele e Arabia Saudita, a scapito e a fronte delle vecchie cordiali intese con Qatar, Emirati, Tunisia: Erdogan, antico simpatizzante delle Primavere Arabe egiziane e tunisine, ha bisogno dei capitali del Paesi del Golfo. Naturalmente, la Turchia di Erdogan è stata capace di stringere le relazioni con i Paesi dell’Islam sunnita, anche fondamentalista, ma non si è fatta mancare l’Islam sciita, quando con Mosca e Baghdad si è trattato di fronteggiare la fase più cruenta della guerra siriana, incistamenti dell’Isis compresi.

Un ruolo da potenza regionale ormai imprescindibile, e perseguito scientificamente, da Erdogan dopo decenni di neutralità di fatto, al grido di “buoni rapporti con tutti i vicini”. E che sul terreno lascia aperta una delle più spinose e vergognose questioni, i 4 milioni di rifugiati tenuti parcheggiati senza alcuno status giuridico, a suon di miliardi di euro forniti di Bruxelles: 3,7 milioni di loro sono siriani. Kiliçdaroglu in campagna elettorale ha detto di volerli rispedire, se eletto, in Siria nel giro di un paio d’anni, ma difficilmente un appeasement con Assad potrebbe arrivare sino a questo punto, anche se Erdogan uscisse di scena. E ancora più difficile che l’Unione Europea - con alle viste le elezioni del 2024, per giunta - accetti di rinegoziare la questione dei campi profughi e della liberalizzazione dei visti.