Walter Tobagi, inviato (ma anche acuto analista) del Corriere della Sera, viene ucciso il 28 maggio del 1980. Aveva 33 anni. Un commando di giovinastri che in questo modo vogliono entrare nelle Brigate Rosse lo uccide per strada. Mette ancora i brividi la fotografia in bianco e nero che lo mostra caduto a terra, tra il marciapiede e la strada, colpito a tradimento.

Tobagi aveva la colpa di incarnare un doppio ruolo: quello di chi vuole capire un fenomeno e lo spiega. E anche altre: soprattutto quella di essere un socialista riformatore, figlio di quella Milano di moderna visione e antichi valori, quel socialismo che affonda le sue radici in Filippo Turati, Edmondo De Amicis, Ugo Guido Mondolfo, Giuseppe Faravelli, Ugoberto Alfassio Grimaldi. Un giornalista e uno scrittore attento ai fenomeni del suo tempo, coglie i primi segni della crisi del sindacato, i fermenti degli studenti, un mondo del lavoro che si evolve e non sempre nella giusta direzione.

Lo ammazza una banda di sciagurati figli di quella Milano bene, molto di sinistra: figli annoiati di una gauche caviar che gioca alla rivoluzione e ha costituito la Brigata XXVIII marzo. Che a ordire l’attentato, a sparare e uccidere siano stati Marco Barbone, Paolo Morandini, Mario Marano, Francesco Giordano, Daniele Laus, Manfredi De Stefano, non c’è dubbio. A fare fuoco in particolare Marano e Barbone; Tobagi è già a terra quando Barbone gli esplode un colpo dietro l’orecchio sinistro. Vuole essere il colpo di grazia, ma non ce n’era bisogno: il cuore di Tobagi era già stato squarciato da un colpo precedente.

L’intera banda viene presto acciuffata, si “pentono” subito, tutto finisce in gloria. Al di là del delitto e del suo esito processuale, c’è tuttavia la questione dell’ambiente che quel delitto ha favorito; se esiste una indubitabile responsabilità da parte di chi ha premuto il grilletto, ce n’è anche una (quantomeno morale, politica) di chi, come una sorta di “dito” ha indicato l’obiettivo da colpire, senza pronunciare esplicitamente il nome, ma isolando la persona; attaccandola e facendone oggetto di una campagna di polemiche violente e ingiuste. In quegli anni destra e sinistra estreme se ne davano di santa ragione senza esclusione di colpi, ma significativamente convergevano nell’attacco e nel ritenere mortale nemico il riformatore, il socialista democratico, il libertario. Tobagi era uno di questi “obiettivi”.

Insomma, il clima; il “contesto”. In quei giorni il PSI prende molto a cuore la vicenda; il quotidiano del partito, l’Avanti! conduce una dura e isolata campagna politica, ne paga anche conseguenze penali: dirigenti socialisti e giornalisti sono condannati per quello che dicono e scrivono. Tra loro Bettino Craxi, Salvo Andò, Paolo Pillitteri, Ugo Intini, Roberto Guiducci. Meritano di essere rilette con attenzione quelle cronache e quei commenti, non foss’altro perché aiutano a capire; andrebbero anche ringraziati per non essersi lasciati intimidire, per aver cercato caparbamente di fare luce su quella vicenda con tanti, troppi aspetti oscuri.

Ora un “salto” di ben 44 anni dal delitto Tobagi. Qualche giorno fa l’ex giudice Guido Salvini, a cui dobbiamo qualcosa per quello che riguarda l’accertamento delle responsabilità fasciste e di apparati dello Stato per la strage di piazza Fontana, è stato assolto dall’accusa di aver diffamato l’arma dei carabinieri; vicenda che trae proprio origine dal delitto Tobagi.

La domanda, il dubbio: era un delitto che si poteva evitare? Le relazioni del brigadiere dei carabinieri Dario Covolo (nome di battaglia “Ciondolo”), redatte sulla base delle confidenze avute dall’informatore Rocco Ricciardi (nome in codice: “il postino”), potevano salvare la vita di Tobagi? “Il postino” aveva confidato a “Ciondolo” che si stava preparando un agguato.

Per aver dato corpo a questo dubbio, per essersi posto questa domanda, Salvini viene querelato da un ufficiale dei carabinieri. Salvini, invitato il 16 gennaio del 2018 alla presentazione del libro Vicolo Tobagi, di Antonello De Stefano (fratello di Manfredi) aveva parlato di “leggerezze e inadempienze” da parte dell’Arma, anche perché «i carabinieri avevano avuto segnali precisi... confidenze... trasmesseo ai superiori... se queste informative fossero state valutate con più attenzione, forse l’omicidio si sarebbe potuto evitare...».

A distanza di quasi mezzo secolo, una sentenza dice che coltivare questo dubbio, questo sospetto, come ha fatto Salvini, non è reato. Si può. A voler (e saper) scavare, forse si scoprirebbe che non è un dubbio solamente ma qualcosa di più consistente; un sospetto che non è solo un sospetto...