Esiste un populismo ecologista? Apparentemente i due termini sembrano incompatibili, contraddittori. Se i populisti parlano alla pancia delle persone, agli istinti identitari, all’egoismo naturale dei gruppi procedendo, per semplificazioni intuitive, il discorso ambientalista ha come orizzonte l’altruismo e la lungimiranza. Rivolgere lo sguardo ai diritti delle generazioni future, a modelli di sviluppo non inquinanti e sostenibili a un patto di corresponsabilità tra produttori, classe politica e cittadini, è quanto di più contrario allo spirito del populismo moderno, che si alimenta invece di interessi immediati e corporativi, spingendosi, nei casi più estremi, nel campo del negazionismo climatico e del complottismo da social.

Eppure, malgrado le profonde differenze filosofiche, neanche il variegato campo ecologista è esente dal “virus”, dalle semplificazioni e dal richiamo alla sfera irrazionale ed emotiva. Qualsiasi populismo infatti specula e prospera sulla paura, che è un sentimento primordiale ma anche un sentimento politico. La sua “manutenzione” è una tecnica consolidata di ogni potere, che permette ai demagoghi di indirizzare il senso comune fino a modificare i paradigmi culturali di una società. Secondo diversi studi una delle paure, delle angosce più radicate tra i giovani, è l’apocalisse climatica che si traduce in una specifica patologia psichica, la cosiddetta “eco-ansia”, o ansia climatica: le ultime ricerche dell'APA (l'American Psychological Association) indicano che i due terzi dei giovani americani soffrono di eco-ansia, mentre un recente studio della prestigiosa rivista Lancet mostra come l'84% degli individui tra i 16 e i 25 anni provi paura per il futuro a causa del riscaldamento globale e di possibili eventi meteorologici estremi. Cifre impressionanti, impensabili solo qualche anno fa. Nemmeno la guerra fredda e la terrificante prospettiva di un conflitto nucleare globale che avrebbe annientato il genere umano, un’angoscia che chi ha più di cinquant’anni ricorda benissimo, ha mai prodotto simili picchi di ansia collettiva.

Che i ragazzi e le ragazze oggi abbiano a cuore l’impegno ecologista e le sorti degli ecosistemi in cui dovremo vivere fra qualche decennio è cosa buona e giusta, che questo impegno civile degeneri in stati patologici, paralizzanti, nella pura e semplice paranoia è segno che qualcosa non sta andando nel verso giusto. E che anche all’interno della sacrosanta difesa dell’ambiente, si annida e lievita il demone dell’allarmismo mediatico che partorisce veri e propri mostri, come accade nelle campagne xenofobe e cospirazioniste che agitano i fantasmi dell’invasione dei migrante e della sostituzione etnica. Come restare lucidi e tranquilli quando tutto il sistema dell’informazione, e persino quello dell’intrattenimento ruotano intorno a questa narrazione distopica, evocando continuamente scenari da Armageddon climatico? Grandi metropoli devastate dalla siccità e invase dagli scarafaggi, migrazioni bibliche di popolazioni scorticate dalla sete, e poi tsunami, alluvioni, dissesti idrogeologici.

Un’altra caratteristica tipicamente populista di questa onda verde è la divisione schematica del mondo in buoni e cattivi, da una parte coloro che vogliono salvare l’umanità, dall’altra chi vuole distruggerla in nome dei propri meschini interessi. In questo modo, ad esempio, vengono descritti da una certa vulgata gli agricoltori europei in rivolta contro le politiche “green” di Bruxelles e sottoposti a vincoli punitivi in nome di un concetto nobile quanto astratto come la biodiversità. Un po’ come accadde ai gilet gialli francesi, inferociti dall’aumento delle accise sul carburante decise dal presidente Emmanuel Macron e additati come un truce e gretto manipolo di inquinatori nazionalisti.

Seguendo l’onda del populismo verde i governi progressisti hanno potenziato le loro agende ambientaliste, hanno sottoscritto importanti protocolli per la riduzione di emissioni di Co2 e in generale stanno avviando la transizione verso un modello industriale post-idrocarburi. Provvedimenti necessari, il problema è la gradualità dei provvedimenti, di solito molto più stringenti per soggetti deboli come piccoli agricoltori e molto meno nei confronti delle grandi multinazionali dell’agroalimentare e degli allevamenti intensivi. È giusto che la politica non sia miope e ragioni sul futuro, ma non deve nemmeno essere presbite nei confronti del presente.