Qualche banco vuoto e la manifestazione contro il “bavaglio” nel posto sbagliato, davanti alla sede del governo anziché quella del Parlamento. Se la dirigenza della Fnsi, sindacato dei giornalisti, sperava di sentirsi dare da Giorgia Meloni rassicurazioni su una retromarcia rispetto all’emendamento Costa che vieta la pubblicazione della ordinanze di custodia cautelare, ha perso la scommessa.

Perché la premier, pur dicendo l’ovvio, e cioè che lei quel provvedimento non l’avrebbe proposto ( e infatti il ministro Nordio aveva inizialmente dato parere negativo), lo ha difeso con parole molto chiare. E ha lasciato intendere che quando, tra una decina di giorni, la modifica dell’articolo 114 del codice di procedura penale arriverà al Senato, il governo potrebbe confermare l’ok assicurato, alla fine, a Montecitorio. Ha usato argomenti più ragionevoli che giuridici, la presidente del Consiglio. Ricordando che fino al 2017, cioè prima delle riforme del ministro pd Andrea Orlando e di Bonafede, nessuno gridava al “bavaglio” nel regime ordinario, in Italia come in tutti i Paesi europei in cui nella fase istruttoria o delle indagini preliminari la riservatezza, la difesa della privacy e la presunzione di innocenza imponevano il divieto di pubblicazione di atti giudiziari. Avrebbe potuto aggiungere che è proprio la direttiva europea del 2016 che lo impone e che, a tutela dell’indagato e dell’imputato, vincola gli Stati.

Quella votazione del Parlamento, ha detto Giorgia Meloni, ha solo riportato nel suo perimetro originario quell’articolo 114 del codice di procedura penale. Non è una giurista, la presidente del Consiglio, ma sul piano politico è esperta e abile.

Non ha, come del resto il ministro e leader della Lega Matteo Salvini, un orizzonte di sicura fede garantistica, soprattutto sull’amministrazione quotidiana della giustizia. Che non tratta ogni minuto di reati di mafia o terrorismo. E neppure, se vogliamo proprio considerarli gravi come gli altri, di reati contro la pubblica amministrazione. Ma pensiamo alla “normalità” che va dai furti fino alle rapine e agli omicidi che, quando finiscono sui giornali, non suscitano dibattiti colti sulla giustizia ma solo l’indignazione dei cittadini che in genere chiedono più forza da parte dello Stato e più carcere. Eppure qualche concetto chiaro sulla giustizia negli ultimi tempi, soprattutto da quando è diventata premier, Giorgia Meloni sta mostrando di averlo.

Ha molto colpito, nella conferenza stampa di ieri, quel che ha detto sul caso di quel magistrato della Corte dei Conti che si comporta sui social come un qualunque militante di partito ( il suo è a quanto pare il Pd). Quel Marcello Degni che ha rimproverato i suoi compagni di non aver spinto l’opposizione in Parlamento fino al punto di costringere il governo all’esercizio provvisorio e a “sbavare di rabbia”. Tutti siamo rimasti colpiti da questa indubbia tracimazione dai limiti di rispetto delle istituzioni che un magistrato non dovrebbe mai superare. Ma Meloni è andata più in là, appellandosi a coloro che quel grave fatto non avevano commentato. La segretaria del Pd Elly Schlein, per esempio. Ma soprattutto il commissario Gentiloni, colui che da premier aveva nominato quel giudice a quel delicato incarico super partes, e che oggi pare trovare normale, con il proprio silenzio, che in quel ruolo ci si possa atteggiare a militanti. Un’osservazione molto forte, che colpisce al cuore un organismo come la Corte dei Conti che dovrebbe perseguire la stabilità economica dello Stato. E che infatti è subito intervenuta. Ma, se si capisce bene perché Meloni ne sia stata particolarmente colpita, quello che è un po’ stupefacente è il fatto che ne sia stata sorpresa. Forse tutta la storia politico-giudiziaria subita da Silvio Berlusconi potrebbe avere insegnato qualcosa di più di quel che appare.

A partire dai comportamenti di magistrati come quello del “resistere resistere resistere”, molto ammirato dal giudice Degni. Cioè colui che un bel giorno disse che non era valsa la pena aver distrutto la prima Repubblica per poi finire tra le braccia di uno come il leader di FI. Lo aveva detto con altre parole, ovviamente, ma il concetto era quello. E anche in quello come in tanti altri casi, lo diciamo con rispetto alla presidente Meloni, cui forse questa parte della storia d’Italia è in parte sfuggita, il vero vulnus era l’aver considerato “normali” quelle parole. Quanti anni sono passati da Borrelli a Degni?