Erano i giorni caldi del delirio Consip. Delle accuse ad Alfredo Romeo, oggi editore di Riformista e Unità, indagato per megacorruzione in un presunto intreccio, poi smentito, con Renzi padre.

Un collega, che ho sempre considerato un modello, un esempio a cui guardare, mi rivela in un fugace incontro in metro: “Al giornale mi hanno messo in croce perché non avevo la notizia uscita sul Fatto”. Notizia, per inciso, riferita dal quotidiano di Marco Travaglio in violazione, come al solito in questi casi, del reato di cui all’articolo 684 del codice penale che, per chi ancora non conoscesse la barzelletta, punisce chiunque pubblichi illegalmente atti d’indagine con ben 51 euro di ammenda.
Resto meravigliatissimo del racconto, sconcertato soprattutto dal dover leggere l’avvilimento dell’impotenza negli occhi di un fuoriclasse della cronaca giudiziaria. Poi naturalmente la febbre da Consip passò. Ci buttammo su altre anticipazioni illecite, finché non arrivammo addirittura al clou dell’hotel Champagne, al corto circuito cognitivo che ha riscritto la storia del giornalismo giudiziario e della magistratura. Ma quell’incontro in metro non mi è mai passato di mente.
Ho sempre pensato a quanto sia folle un sistema editoriale che intima ai migliori giornalisti di produrre notizie in violazione della legge, dei diritti degli indagati, della dignità umana e, in ultima analisi, della stessa tenuta democratica. Me lo chiedo perché adesso leggo di altri cronisti di straordinario valore compulsare a loro volta altre fonti perché si affrettino a inviare i file, per esempio, sulle indagini di Perugia, manco fosse l’ordinativo di un fornitore che tarda a consegnare la merce.

Pur nel quadro di una magistratura assai meno idolatrata rispetto alla golden age di Mani pulite, pendiamo ancora dal wikileaks giudiziario. Siamo messi male. Ma su di noi incombono direttori e a volte editori che ci chiedono essenzialmente una cosa: alimentare la sputtanopoli. Portare notizie che squalifichino la politica, non si sa bene se per vendere copie, compiacere gli avversari della vittima o per un mix tra i due propositi. Dite quel che volete, ma noi giornalisti siamo anche i forzati di un sistema, di una macchina dell’informazione che reclama di continuo infrazioni del segreto istruttorio, soprattutto a danno dei politici, che rincorre le vendite con scoop giudiziari schiacciati sul punto di vista dell’accusa.

E mi chiedo una cosa: è davvero un caso se, da quando, con Mani pulite, la cronaca giudiziaria sbilanciata sulle presunte malefatte dei politici ha acquisito in Italia uno spazio mai avuto prima, si è progressivamente aggravata la crisi dei giornali? Siamo proprio sicuri che delegittimare di continuo la politica renda un servizio alla democrazia? E che quando, prima del ’92, i quotidiani si occupavano soprattutto di battaglie tra i partiti, di lotte sociali, di conquiste del lavoro, oltre che di emergenze come il terrorismo e le stragi, i cronisti fossero dei pusillanimi embedded, al cospetto della nostra fiera autonomia?

Siamo davvero convinti che aver consegnato le chiavi della democrazia ai magistrati coincida con l’interesse dei cittadini? Me lo chiedo e ancora una volta dico: confrontiamo le copie, o le visualizzazioni on line, con i lettori che i giornali vantavano fino a trent’anni fa, e cerchiamo di capire fino a che punto tutto questo ci conviene. E se non si tratti di un perfido inganno del quale, dopo trent’anni, sarebbe forse ora di liberarsi.