PHOTO
GIOVANNI TOTI, POLITICO
Se una grande Procura, stimata e benvoluta all’interno dell’Associazione magistrati, impegna la propria reputazione professionale in un’indagine di forte impatto mediatico, il processo potrà far cadere qualche aggravante o qualche imputazione minore ma si concluderà comunque con una condanna. Una condanna parziale, per alcuni imputati e per alcune imputazioni. Così nessuno potrà dire che il giudice non ha valutato autonomamente le carte e, nel contempo, la grande Procura potrà scrivere nel proprio comunicato stampa che “l’impianto accusatorio” ha retto.
Questa, vera o sbagliata che sia, sembra essere la valutazione che ha indotto gli imputati, a ottobre 2023 a Perugia per il caso Palamara e in questi giorni a Genova per il caso Toti, a rinunciare a difendersi sostenendo la propria innocenza, e ad accettare il patteggiamento. La soluzione concordata è stata favorita, probabilmente, anche dall’ingovernabilità della materia processuale. Quando le intercettazioni si pesano a quintali, neppure il pubblico ministero può conoscerne per intero il contenuto: si basa sulle sintesi che gli fornisce la polizia giudiziaria.
L’imputato, poi, non può nemmeno sognarsi di controllare se le sintesi sono veridiche e se per caso, in mezzo a migliaia di ore di registrazione, si nasconda una piccola conversazione che contraddica l’ipotesi dell’accusa. Un controllo del genere impegnerebbe per mesi un esercito di avvocati, o di sherpa qualificati, a un costo insostenibile per l’imputato, per quanto eccellente.
D’altronde il pm ha di fronte a sé un dibattimento lungo, che impegnerà per giorni e giorni i magistrati dell’ufficio: preferisce chiudere il caso, dedicandosi a indagini e a comunicati stampa nuovi di zecca. Non ha interesse a calcare la mano sul trattamento punitivo, purché, ovviamente, si possa consegnare ai giornali la fatidica frase: l’impianto accusatorio ha retto. Per questo la bottega del pm offre al cliente-imputato un prodotto ben più appetibile della misera riduzione di 1/ 3 della pena prevista dal codice: rinuncia ad accuse gravi, foriere – in caso di condanna – di lunga galera e cospicui risarcimenti del danno, riformulando i capi d’imputazione in modo da contestare accuse meno gravi, dalle conseguenze ben più tollerabili ( sospensione condizionale della pena o lavoretti socialmente utili, risarcimenti limitati, ecc.). In entrambi i casi, l’accusa rinunciata era quella di corruzione, diverso nei due casi il reato “minore” patteggiato.
Un patteggiamento all’americana, dunque, perché è negli Stati Uniti che – a quanto pare – con un’accusa di omicidio volontario puoi concordare una condanna per omicidio colposo o magari, chissà, per maltrattamento di animali. Con una differenza, però: negli Stati Uniti il patteggiamento è affare del pubblico ministero e del difensore, il giudice si limita a verificare che l’imputato abbia compreso il contenuto dell’accordo e le sue conseguenze.
Nel sistema italiano, invece, il giudice deve controllare che esistano prove a carico dell’imputato e che il fatto sia correttamente inquadrato, ovvero che corrisponda all’ipotesi di reato per la quale viene applicata la pena. Deve invece respingere la proposta concordata da pm e difesa laddove non la ritenga rispondente alla retta applicazione della legge.
Questo significa che se il pubblico ministero cambia idea, e a un dato momento decide di ravvisare nei fatti un reato meno grave di quello che aveva contestato originariamente, il patteggiamento passa solo se cambia idea anche il giudice. Nel presentare al giudice il patteggiamento “all’americana”, pm e difensori contano – come dire – su un appiattimento dinamico del giudice alle tesi dell’accusa. Un po’ come in certi moderni sistemi di comunicazione a distanza, nei quali si partecipa a una conversazione con la propria immagine virtuale: il giudice è un ologramma del pubblico ministero e ne replica minuziosamente movimenti, parole, espressioni.
Luca Palamara ha patteggiato a distanza di più di 4 anni dall’inizio dell’indagine. Secondo l’accorto comunicato stampa del procuratore di Perugia, nel frattempo era cambiata la giurisprudenza della Corte di Cassazione – il “diritto vivente”, che i magistrati si scrivono da soli e che ormai conta più della legge – sicché quella che un tempo era corruzione si era trasformata in traffico d’influenze, reato meno grave. Controllare per credere: basta leggersi quattro anni di sentenze e fare il confronto con le sentenze precedenti, può farlo chiunque, eh, eh.
Nel caso Toti, giustificare il cambio di rotta sarà più difficile: sia quando ha applicato agli imputati le misure cautelari, sia quando ha disposto il giudizio immediato, il Tribunale di Genova ha riconosciuto che le accuse originarie erano fondate. Per la precisione, nella prima occasione ha affermato che erano sostenute da gravi indizi, nella seconda che la prova “appariva evidente”. A poche settimane di distanza lo stesso Tribunale, in diversa composizione, è chiamato a dire che i reati non erano quelli ma altri, reagendo come un ologramma al nuovo atteggiamento processuale del pubblico ministero. Beh, che dire: se il rapporto fra pm e giudice è questo, meglio patteggiare.