A sentire le accorate parole di Giorgia Meloni si direbbe che per interi decenni in Italia essere “patrioti” sia stato un castigo divino, un marchio di disonore e una lunga espiazione, giunta finalmente al termine con l’approdo al governo della destra sovranista.

«Oggi, grazie al nostro contributo quell’espressione non è considerata un’infamia», spiega commossa Meloni in un videomessaggio al convegno "Nazione e Patria. Idee ritrovate" organizzato dall'ex presidente del Senato Marcello Pera a Palazzo Madama. La sensazione però è che la premier stia compiendo un transfert, confondendo la marginalità di certe idee con quella che ha vissuto a lungo il suo partito e, in generale, la sua parte politica, erede del Movimento sociale italiano e della sua diaspora, considerata per decenni un corpo estraneo al cosiddetto arco costituzionale.

Se però queste nozioni non suscitano più i fervori risorgimentali e nemmeno vaghe pulsioni irredentiste non è in virtù del solito complotto culturale della sinistra progressista e sradicata, al contrario la diffidenza e il sospetto degli italiani verso qualsiasi esibizione di nazionalismo attiene a precise ragioni storiche che la premier dovrebbe conoscere per sua stessa formazione politica.

È molto complicato separare la rivendicazione orgogliosa dell’identità nazionale dalla propaganda che ne fece il ventennio fascista. La completa e strumentale assimilazione tra patria e Stato totalitario compiuta dal regime, la sua vocazione imperialista che ci ha spinti nella tragedia della Seconda guerra mondiale, hanno relegato la nazione in un angolo buio della Storia. Nella Germania post-hitleriana il fenomeno è stato ancora più profondo, un tratto dell’inconscio collettivo che sfiora l’autocensura.

C’è poi in Italia, in questo caso sì, un carattere tipicamente “nazionale” nello sfuggire alla retorica pomposa della nazione, una tendenza a prendersi meno sul serio di altri popoli a noi vicini: santi, poeti e navigatori, quasi mai guerrieri.

Strano destino quello del nazionalismo, nato nella fornace della Rivoluzione francese modella il concetto di patria sulla volontà del popolo vittorioso che si sostituisce al re come detentore della sovranità. La nazione è lo spazio entro cui esercitare l’uguaglianza, la libertà e la fratellanza mentre l’onda d’urto della Bastiglia attraversa tutta l’Europa per oltre un secolo, animando le battaglie di liberazione dei popoli schiacciati dal tallone dell’Ancien régime, costretti a vivere in entità geografiche definite dagli interessi materiali di sovrani e imperatori: Grecia, Belgio, Serbia, Romania, Bulgaria, e naturalmente l’Italia diventano indipendenti, salutate dai patrioti di tutta Europa, anche dai socialisti che vedono nel nuovo Stato nazione un’opportunità per far avanzare i diritti del lavoro.

Era patriota il repubblicano radicale Giuseppe Mazzini, era patriota il liberale Cavour, il cattolico progressista Manzoni, il rivoluzionario Carlo Pisacane. Mentre i conservatori vacillavano e molti di loro restavano ancorati al vecchio mondo, la sinistra non esitava a celebrare e declamare la patria.

Se c’è un evento che segna lo slittamento del nazionalismo verso la destra identitaria e revanchista probabilmente è il caso Dreyfus, l’ufficiale ebreo francese ingiustamente accusato di tradimento, la patria e la ragion di Stato diventano strumenti contro i diritti dell’uomo e nel campo nero dei colpevolisti lievitano i germi del nazionalismo imperialista e antisemita, avverso allo Stato liberale e democratico e al cosmopolitismo socialista. Con tutta la sua simbologia identitaria e la sua vocazione guerrafondaia: dall’inizio del 900 fino al secondo dopoguerra il nazionalismo europeo è stato così il principale carburante ideologico dei regimi fascisti ai quali è rimasto vincolato in modo indissolubile fino alla loro rovinosa caduta.