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L'ex ministro della Giustizia Marta Cartabia
In un saggio del 1941, Ernst Fraenkel sviluppava, a proposito del nazionalsocialismo, la teoria del “doppio Stato”.
Nel suo scritto, evidenziava come la rottura che il nazismo aveva consumato nei confronti dei principi democratici era dovuta alla evocazione dello stato di eccezione o “di assedio”, che aveva consentito di investire la politica dei cosiddetti “pieni poteri”, secondo l’adagio popolare per il quale la necessità non ha Legge.
Nello stato di eccezione, il potere politico non era più sottoposto al diritto (sub lege), né si esplicava attraverso norme generali (per legem), ma era, al contrario, svincolato dal rispetto della legge ed esercitato mediante giudizi di opportunità.
In questa realtà distopica, che Fraenkel definiva “Stato discrezionale”, non erano i tribunali a controllare l’amministrazione dal punto di vista della legalità, ma era l’autorità di polizia a controllare i tribunali dal punto di vista della opportunità.
Per tale motivo, chiosava l’Autore, la Costituzione (cioè, la fonte da cui promanava il potere pubblico e rispetto alla quale ogni altra istanza era recessiva) era lo stato d’assedio.
Nel nostro Paese, ormai da decenni, la Costituzione è la lotta alla mafia, intesa come obiettivo da perseguire, per ragioni di opportunità politica, non necessariamente sub lege e per legem, nel contesto di un perenne stato di eccezione.
L’evocazione di una “lotta”, perfetta concretizzazione del “diritto penale del nemico”, ha consentito al potere politico la creazione di doppi binari, anche processuali, per la repressione e, soprattutto, per la prevenzione del fenomeno mafioso, dotati di caratteri di peculiare asistematicità rispetto ai principi generali dell’ordinamento. Ma ha anche facilitato la nascita di un fenomeno sociale, quello dell’Antimafia, che, spesso del tutto digiuno di nozioni giuridiche, si risolve quasi sempre nella proclamazione di cahiers de doléances secondo i quali la mafia sarebbe deliberatamente favorita da una legislazione nella migliore delle ipotesi troppo blanda, se non addirittura compiacente. E che, secondo un anacronistico “dagli all’untore”, invoca sempre nuove limitazioni delle libertà, nuove sanzioni, nuovo “terrore”.
Solleticando la pancia del popolo, esasperandone le paure, eccitandone la sensazione di essere in stato di assedio, si è legittimato agli occhi dei cittadini la necessità e, di più, la legittimità di una produzione legislativa e giurisprudenziale che, colpo su colpo, ha attratto alla normativa antimafia situazioni e soggetti che con la mafia non avevano nulla a che fare: i corrotti, gli evasori fiscali, gli stalker, i predatori sessuali e tutta quella congerie di criminali comuni che oggi si vedono processati e sanzionati, specie con riferimento alle misure di prevenzione, come i mafiosi.
Una aggressione ai diritti costituzionalmente protetti degli individui, dettata dalla contingente opportunità politica di mostrare fermezza rispetto ai fenomeni criminali che, in una determinata epoca storica, siano avvertiti come allarmanti: oggi il femminicidio, solo ieri i rave parties, poco prima la corruzione, domani chissà.
Insomma, la materializzazione dello stato di eccezione, sempre figlio (o padre) di regimi autoritari.
In questo milieu di fanatismo intransigente va letta la reazione mediatica ad una recente ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana (ord. 209/23), che ha sospeso cautelativamente una informativa interdittiva antimafia (misura di prevenzione non ablativa) resa nei confronti di un imprenditore, sulla scorta della nuova formulazione dell’articolo 445, comma 1-bis del codice di procedura penale.
La “riforma Cartabia”, infatti, ha espressamente normato quello che era un principio ispiratore della riforma codicistica del 2003 che, nell’ottica di incentivare il ricorso a riti deflattivi e premiali, aveva privato la sentenza di applicazione della pena su richiesta (patteggiamento) di effetti extrapenali e, dunque, di efficacia di giudicato nei procedimenti civili, amministrativi, contabili e disciplinari.
Principio rapidamente obliterato da numerose pronunce della giurisprudenza civile e amministrativa, in particolar modo di merito, secondo cui il patteggiamento, “pur non essendo equiparabile ad una sentenza di condanna, presupporrebbe un’ammissione di colpevolezza”.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano, recependo la riforma legislativa, ha dunque correttamente dichiarato l’irrilevanza, nel procedimento di prevenzione, di una sentenza di patteggiamento che costituiva l’unico presupposto per l’irrogazione della interdittiva antimafia, la cui efficacia è stata sospesa.
Ma, occasione irripetibile per i “professionisti dell’Antimafia”, quella sentenza penale era stata resa in relazione al delitto di cui all’articolo 416-bis del codice penale.
Da qui, con i registri comunicativi allarmistici tipici dello stato d’assedio, un articolo apparso sul Fatto Quotidiano del 5 luglio 2023, dal significativo titolo “Legalizzare la mafia: grazie al dl Cartabia ce la stiamo facendo”.
Nel denunciare “la logica perversa della riforma Cartabia” e nell’escludere (ma solo per insinuarlo) che il governo Draghi abbia “operato in segreto in favore dei malviventi”, l’autore suggerisce al lettore, sapientemente indotto alla indignazione, che se il mafioso patteggia una pena “non gli succederà niente”, perché potrà liberamente continuare a contrattare con la pubblica amministrazione.
Lo scritto soffre di una generalizzazione e di una certa approssimazione tecnica.
Quanto al primo aspetto, l’ordinanza vituperata interviene sul caso, rarissimo se non unico, di una misura di prevenzione adottata sul solo presupposto di una precedente sentenza di applicazione della pena su richiesta.
Al cittadino era stato, cioè, impedito il libero esercizio dell’impresa (nel che si sostanzia la negazione del diritto di iniziativa economica, costituzionalmente protetto) per essere incappato in un singolo procedimento penale, conclusosi con una sentenza di patteggiamento.
Circostanza che rende, obiettivamente, piuttosto arduo prevedere quella messe di conseguenze criminogene ipotizzate dal quotidiano.
Quanto al secondo aspetto, l’autore non si confronta con la concreta vicenda processuale, né con il dato testuale del novellato articolo 445 del codice di rito penale.
Nel caso trattato dal Consiglio di Giustizia Amministrativa, infatti, l’associazione per delinquere oggetto di pena concordata era cessata ad aprile del 1997, ossia quasi trenta anni or sono!
Già l’elemento temporale consentirebbe di ritenere aberrante la presunzione di perenne mafiosità, che sottende alla volontà persecutoria di espellere dal circuito dell’economia legale un cittadino che ha chiuso i propri conti con la giustizia nel secolo scorso (nel che si sostanzia la tendenziale attitudine criminogena dell’abuso delle misure di prevenzione).
Ma, oltre a ciò, occorre volgere lo sguardo all’assetto normativo attuale, che, da un lato, vieta di concordare una pena superiore a due anni per i delitti di mafia (articolo 444, comma 1-bis del codice di procedura penale, che non consente il patteggiamento “allargato” per talune ipotesi di reato) e, dall’altro, prevede una pena edittale minima di dieci anni di reclusione per il delitto di cui all’articolo 416-bis cp.
È, dunque, matematicamente impossibile oggi patteggiare una pena inferiore a due anni per il reato di associazione mafiosa, mentre lo era nel 1997, quando la pena edittale minima era pari a tre anni di reclusione.
Gridare allo scandalo per l’ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa, quindi, è strumentale al mantenimento dello stato di eccezione, perché alimenta il fanatismo popolare distogliendolo dalla costante privazione di diritti fondamentali, frutto di una legislazione di opportunità, propria di una “Stato discrezionale” e non di uno “Stato normativo”, per tornare alle suggestioni di Fraenkel.
Ma il fanatismo dei “pieni poteri”, dello stato d’assedio è l’anticamera dello Stato illiberale.
Chiudiamo allora il nostro intervento con Voltaire: Écrasez l’Infâme. Schiacciate l’infame. Cancellatelo.
Il grande filosofo francese si riferiva al fanatismo religioso ma quello del “diritto del nemico” non è, credeteci, meno pericoloso.