Ha creato scompiglio il fatto che a Milano un giudice si sia permesso di non accogliere le richieste del pubblico ministero. Non ha ricevuto molti applausi, ma ha conquistato in gran parte la prima pagina della critica il gip Tommaso Perna il quale, concedendo “solo” 11 misure cautelari in carcere su 153 richieste, ha osato violare niente meno che il sacrario dell’Antimafia milanese, quella che fu il regno di Ilda Boccassini e oggi è diretto da Alessandria Dolci. Sconcerto, delusione, persino lo sberleffo di Marco Travaglio che accusa il giudice di aver “copiato” dagli studi giuridici di un avvocato. Ah, la parolaccia! Avvocati! Quelli con la toga sbagliata, che hanno il coraggio di rappresentare la difesa nel processo.

Se tutti coloro che sostengono la necessità di separare le carriere dei pm da quelle dei giudici aspettavano la prova concreta di quanto quella riforma sia urgente, ecco il piatto servito. La dialettica processuale tra le parti è considerata normale se tra i due magistrati colleghi c’è sintonia di pensiero, se quel che il pm chiede, il gip concede. Ma diventa anomalia, se non incidente, nella storia del processo in Italia, se accade il contrario.

Il giudice Perna, a quanto rivela l’informatissimo Luigi Ferrarella del Corriere, ha studiato per mesi le carte dell’inchiesta e l’ipotesi che a Milano e Varese, con le rispettive province, sia nato e operante un nuovo soggetto politico- mafioso, detto Consorzio, frutto dell’unione tra Cosa Nostra, ‘ ndrangheta e camorra. Una novità assoluta, descritta in migliaia di pagine, che hanno indotto, quando il fascicolo milanese ha lasciato il quarto piano del palazzo di giustizia dove ha sede la procura per salire al settimo dove lavorano i giudici delle indagini preliminari, il capo di questi ultimi, Augusto Barazzetta, a distaccare un giudice a occuparsi solo di questo.

Il sorteggio, sistema usuale tranne ai tempi di Mani Pulite quando con un “trucco” denunciato sul Dubbio dal giudice Guido Salvini i pm erano riusciti a concentrare ogni inchiesta nelle mani dell’ unico giudice Italo Ghitti, ha indicato il nome di Tommaso Perna. Il quale, dai primi di aprile, fino a questi giorni, ha studiato il caso. C’è una stranezza, nell’articolo di Ferrarella, uno storico cronista giudiziario che sulla precisione delle notizie non sbaglia un colpo, la citazione proprio del giudice Salvini. «Almeno da gennaio 2023 - scrive - ai piani alti dell’arma alti ufficiali accreditano pubblicamente l’approdo di un importante lavoro antimafia al gip Guido Salvini…». Non è chiaro se si intenda affermare che non solo i pubblici ministeri, ma addirittura organi di polizia giudiziaria, desiderano potersi scegliere il giudice più gradito. Il che in questo caso è veramente singolare, dal momento che proprio questo magistrato ha usato parole molto chiare su questo quotidiano in un intervento di due giorni fa.

Discutendo sul Dubbio del 25 ottobre sulla separazione della carriere, cui il magistrato come tutti gli altri suoi colleghi è contrario, il dottor Salvini ha però operato un distinguo, non solo proponendo di separare la logistica, cioè i palazzi, ma soprattutto creando due diversi Csm. Una frase che lo mette al riparo da qualunque tentazione, di pm o di carabinieri, di considerarlo “avvicinabile”, cioè gradito. «Concordo certamente - ha scritto - sulla necessità di distanziare i pm dai giudici per rendere effettiva l’indipendenza di questi ultimi da tutte le parti del processo e prevenire condizionamenti». Chi vuol prevenire condizionamenti in genere non è “avvicinabile” dunque. Posizione limpida. Quello che non ci è chiaro però è come un magistrato di esperienza, sempre lontano da correnti e pastette, uno che vuole addirittura cacciare i pm in un altro palazzo (ottima idea) per evitare condizionamenti anche con la condivisione del famoso caffè, ancora creda alla mitica “cultura della giurisdizione” del pubblico ministero. Ci dica, il giudice Salvini, se conosce qualche procuratore che abbia seriamente mai cercato le prove favorevoli all’indagato. Usciamo dall’ipocrisia, allora, e collochiamo il pm al posto suo, a quello in cui lo hanno messo gli ordinamenti di tutto il mondo occidentale, da quello anglosassone fino a quello dei Paesi dell’Europa democratica.

Del resto, qualunque cosa significhi quella frase sull’ “approdo a un importante lavoro antimafia”, difficilmente Guido Salvini avrebbe potuto scrivere qualcosa di diverso da Tommaso Perna. Il quale, lo spieghiamo a Marco Travaglio senza l’illusione di poterlo “rieducare”, se ha copiato, lo ha fatto semplicemente riproducendo quel che dice la norma sull’associazione mafiosa e sulla sua esistenza. Ma anche sul concetto di prova, che è cosa diversa dalle “suggestioni” di certe ipotesi investigative. Fondamentale perché un certo sodalizio possa essere considerato associazione mafiosa e ricadere nell’ipotesi dell’articolo 416- bis del codice penale, è che gli indagati nei loro comportamenti “si siano avvalsi della forza intimidatrice che promana dall’esistenza stessa dell’associazione”. E il secondo requisito è la conseguenza del primo, cioè “l’assoggettamento diffuso della popolazione a una condizione di omertà generalizzata”. Tutto questo, scrive il gip, nelle carte non c’è. Non perché non esistano ipotesi di qualche reato, per esempio l’estorsione, ma manca proprio la prova dell’esistenza del vincolo associativo fra le tre cupole storiche. C’è solo qualche relazione personale tra soggetti provenienti dalle tre Regioni storiche degli insediamenti di mafia ‘ ndrangheta e camorra. Ma è soprattutto assente del tutto, conclude il giudice, la consapevolezza e l’assoggettamento della popolazione lombarda. Non c’è omertà del popolo, perché il popolo non si è minimamente accorto di questa presenza. Perché in sostanza non c’è.

Come del resto non esiste la famosa “zona grigia” molto amata dal procuratore Gratteri, ma sempre esclusa da Giovanni Falcone. Pure la responsabile della Dda milanese Alessandra Dolci e la pm Alessandra Cerreti (già pm e gip in Calabria) riempiono pagine a pagine di nomi e cognomi di esponenti politici di Fratelli d’Italia neppure sfiorati dall’inchiesta. Che bisogno c’era? Nessuno. Pure Repubblica vi dedica un intero articolo addirittura a quattro firme. Così come era inutile, anzi vietato dalla legge, battezzare l’ennesima inchiesta fallimentare sulla mafia con il nome di “Operazione Hydra”. Il giudice ha sbattuto la porta in faccia a questi magistrati che “da tanti anni mangiano solo pane e antimafia”, e che non hanno neanche potuto fare la solita conferenza- stampa, lamenta il solito Travaglio. Credeva forse di essere nella vecchia Catanzaro a braccetto del procuratore Nicola Gratteri?