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Qualche secolo fa, neanche troppi, gli uomini non avevano ancora conosciuto gli allarmi democratici, i temuti colpi di maggioranza che da anni flagellano la vita pubblica italiana, e così, beati, potevano dedicarsi allo studio delle scienze e del diritto.
Penso a quel periodo della storia in cui gli studiosi, essendosi lasciati alle spalle da poco cose come l’inquisizione, i roghi, le pene corporali, si baloccavano cercando di distinguere il delitto dal peccato.
E si sa, l’appetito viene mangiando, i nostri antenati si erano messi in mente che lo studio del diritto penale, la definizione dei reati e delle pene altro non fosse che una “teoria del limite” all’intervento punitivo dello Stato.
Brava gente sicuramente, ma ingenua, tanto da convincersi che il diritto servisse a garantire la libertà del cittadino dagli abusi dello Stato, anche se va detto a loro discolpa che per loro lo Stato fino a non tanto tempo prima aveva le sembianze della tirannide, che coi diritti non ci andava troppo per il sottile.
In Italia poi ci sono stati studiosi, per tutti un certo Francesco Carrara, che a metà Ottocento si erano addirittura convinti che il diritto penale dovesse giudicare i fatti e non gli uomini, addirittura giungendo sino a considerare irrilevante tutto quello che facesse riferimento alla personalità del reo.
Mentre impazzava tanta grossolana eresia liberale, sul finire del diciannovesimo secolo, quando gli italiani erano sul punto di chiedersi dove saremmo andati a finire di questo passo, arriva qualcuno che di fronte a questo sfascio mette subito le cose in chiaro: ma quale libero arbitrio?
L’uomo ha il proprio destino scritto da fattori fisici, antropologici e sociali, il delinquente non è libero di scegliere tra il bene ed il male, la pena (la galera o peggio) ha la funzione di difendere la società prevenendo ciò che altrimenti il delinquente lasciato libero avrebbe fatto.
Finalmente, questa cosa di porre l’attenzione sui fatti e non sul reo, la mania di descrivere minuziosamente i reati e di farlo in modo chiaro al punto da arrivare ad affermare che le leggi vadano scritte con il nitore della china, ce la lasciamo alle spalle.
Del resto era troppo grave il rischio che poi un imputato pretendesse di difendersi e magari lo facesse proprio asserendo che il fatto commesso era diverso da quello previsto e punito dalla legge.
A fine Ottocento, ad un passo dalla catastrofe arrivano a salvarci altri giuristi.Giuristi che però finalmente hanno capito che più delle parole e ancora più dei fatti conta il reo, la sua personalità criminale: tra questi salvatori della Patria una menzione particolare la merita il Lombroso, uno studioso che riteneva determinanti per il comportamento criminale caratteristiche fisiche, biologiche del reo, a volte alla bisogna si misurava anche la circonferenza del cranio.
Ora non vorrei che l’opera del Lombroso fosse banalizzata alla misurazione del cranio del reo, perché a questo studioso dobbiamo molto più di quanto si pensi e forse è giunto il momento di riconoscerglielo.
La verità è che di fronte ad un’inchiesta penale come quella che riguarda il presidente della Regione Liguria, ma ne potremmo elencare molte altre, in cui ai più non è chiarissimo cosa gli si addebiti e perché lo si sia tenuto così a lungo agli arresti domiciliari, emerge prepotente, direi inconfutabilmente che nemo profeta in Patria.
Si, di fronte a tante incrollabili certezze di colpevolezza, dobbiamo ammettere che se Lombroso al posto del cranio avesse verificato il nitore del colletto del politico di turno tante cose ce le saremo risparmiate.