In una recente intervista il più prestigioso degli esponenti della maggioranza in materia di giustizia, il viceministro Sisto, ha perentoriamente escluso che si possa mettere mano all’articolo 68 della Costituzione e ripristinare l’istituto dell’autorizzazione a procedere, praticamente cancellato dalla legge costituzionale del 1993. Una posizione che, ovviamente, tiene in conto soprattutto le posizioni storiche assunte dalla destra italiana nella stagione di Tangentopoli, quando proprio l’Msi di Fini si fece promotore di una proposta di riforma dell’articolo 68 più radicalmente abolizionista. I nomi dei firmatati del disegno di legge presentato il 28 aprile 1992 si iscrivono nel pantheon più celebre e celebrato della destra italiana. Oltre a Fini, apposero la firma in calce alla proposta Tatarella, Berselli, La Russa, Gasparri, Mattioli, Nania, Trantino, Valenzise. Insomma, i padri nobili di quella destra che oggi esprime in sostanziale linea di continuità la premier e che è l’elemento portante del governo in carica. La relazione di minoranza del 1993, a firma di Filippo Berselli che puntava a ottenere una radicale soppressione dell’istituto, è un documento politicamente onesto in cui emerge chiara la denuncia di un uso distorto dell’istituto che aveva, nel tempo, privilegiato con arroganti dinieghi esponenti della maggioranza ed esposto ai processi elementi delle minoranze politiche, anche per reati di mera opinione ( pag. 7 ). E’ chiaro, quindi, che non sia lecito attendersi qualsiasi ripensamento sul punto e che il viceministro Sisto abbia onestamente dato conto dell’aria che tira sul punto. Insomma, non se ne parla. Tuttavia.

La cornice delle considerazioni, spesso autorevoli e condivisibili, innescate dall’intervento di Bruti Liberati sulle colonne di questo giornale, merita un tassello ulteriore, forse il più spigoloso e difficile da incasellare nel complicato puzzle di un ragionamento reso scivoloso da molti retropensieri e sospetti. Nessuno mette in discussione che la politica debba o dovrebbe autonomamente valutare le condotte addebitate a personaggi di spicco delle istituzioni per trarne decisioni sulla compatibilità con il loro incarico. I fatti sono, talvolta, evidenti e i tempi imposti dalla cura della salute repubblicana e della tenuta democratica esigono giudizi e prese di posizione indifferibili, talvolta urgenti. Dilazionare ogni decisione in questi casi compromette l’autorevolezza delle istituzioni e, in verità, la politica farebbe bene a prendere esempio dai componenti del Csm che, finiti nel groviglio dell’Hotel Champagne e del Palamaragate, spontaneamente o su sollecitazione del Quirinale si sono dimessi praticamente subito dall’incarico per restituire prestigio e trasparenza alla propria istituzione. L’esempio è chiaro ed evidente e spiace che, nell’annoso dibattito sui rapporti tra politica e giustizia, si ometta di ricordare quel precedente che ha riguardato comunque un organo di rilevanza costituzionale al cui vertice vi è, come noto, il presidente della Repubblica. Questo per spiegare che non occorrono chissà quali sofismi e alchimie per giustificare scelte politiche virtuose al sorgere di scandali o all’emergere di condotte illecite. Inutile, poi, dolersi di una pretesa supponenza morale delle toghe italiane che, invero, non hanno mancato un appuntamento importante con una congiuntura negativa della propria storia.

L’abolizione dell’autorizzazione a procedere, a ben guardare, si è risolta in un enorme, inestimabile vantaggio per la politica italiana e per le sue opacità. Innanzitutto, le ha consentito di non prendere più una posizione formale sui procedimenti penali iscritti a carico dei componenti delle Camere. Prima del 1993 la Giunta per le autorizzazioni avrebbe dovuto esaminare il caso, valutare se c’era un fumus persecutionis contro il parlamentare e decidere se concedere il nihil obstat ai magistrati. Il giudizio politico sui fatti penalmente rilevanti era ineludibile, indifferibile, non aggirabile.

Non era possibile mantenere un atteggiamento attendista o dilatorio; si dovevano acquisire gli atti dell’indagine penale; si dovevano sentire le ragioni dell’inquisito; si doveva assumere una decisione che era necessariamente e per definizione una valutazione ( anche) politica sulla condotta del parlamentare. Tutto trasparente, tutto alla luce del sole, finanche l’arroganza di un diniego ingiustificato ai pubblici ministeri avrebbe avuto una precisa valenza politica, creato contraddizioni, aperto un dibattito. Ed é indiscutibile che questo modo di procedere questa rapida assunzione di responsabilità avrebbe espanso i propri benefici effetti in ogni direzione anche quando di parlamentari non si discuteva.

Approvata l’abrogazione, si sono aperte le praterie del “ponziopilatismo” politico e dell’ipocrita endiadi che recita la giaculatoria del “rispetto e attesa” per le decisioni del potere giudiziario. Il modo migliore per lavarsene le mani e per evitare qualunque formale presa di posizione sul comportamento dell’eletto sospettato di illiceità. Il diaframma temporale, sostanzialmente breve, che separava la configurazione di un’ipotesi di reato in sede processuale dalla valutazione politica ex articolo 68 è stato dilatato sino al punto per cui del tutto legittimamente le forze parlamentari possono annunciare di porsi in rispettosa attesa dell’esito delle indagini ed evitare ogni presa di posizione. Se a questo si aggiungono il margine di incertezza che circonda ogni inchiesta e le numerose assoluzioni che segnano l’esito di alcune tambureggianti indagini, è evidente che la posizione attendista sia pienamente giustificata pur in presenza di comportamenti di una certa gravità o, comunque, non consoni al prestigio delle istituzioni parlamentari.

E’ inutile, quindi, dolersi del fatto che la politica resti immobile a fronte di condotte all’esame della magistratura e che ometta di prendere posizione su esse. Tolto di mezzo l’unico protocollo costituzionale che raccordava e poneva in tendenziale sincrono i tempi della giustizia e quelli del potere politico, il metronomo delle indagini scandisce un tempo del tutto inutile con un palazzo che non offre risposte per la semplice ragione che tutto il contesto, mediatico- costituzionale- processuale, gli consente di restare alla finestra e di dissimulare le proprie convinzioni. L’impetuosa stagione giustizialista del 1993 ha così, per una subdola eterogenesi dei fini, consegnato alla politica il suo miglior risultato: quello di essere esonerata da ogni giudizio formale e di poter fidare sul fallimento delle indagini per poi giustificare la propria inerzia. E’ vero, di ripristinare l’autorizzazione a procedere non se ne parla proprio e sarà così per molto tempo ancora, ma non si capisce perché la politica dovrebbe uscire dal guscio ovattato che le è stato ricavato per dar man forte a campagne di stampa o alla precaria indignazione populista.