Mentre discutiamo della situazione di Ilaria Salis, militante italiana di sinistra arrestata a Budapest in possesso di un manganello e sospettata di averlo usato in due occasioni contro avversari politici, proviamo per un attimo a rovesciare la situazione. Immaginiamo che una militante ungherese di destra, con precedenti penali nel suo paese soprattutto per manifestazioni violente e resistenza a pubblico ufficiale, sia venuta in Italia. E che qui sia stata arrestata per aver partecipato a una sorta di spedizione punitiva per randellare militanti politici di sinistra, alcuni dei quali saranno feriti. E che nella sua borsa sia stato trovato un bastone del tipo di quelli usati per le aggressioni. La ragazza ungherese sconta tredici mesi di custodia cautelare in una prigione italiana. Cioè in uno di quei luoghi il cui sovraffollamento è oggi valutato al 119 per cento e per il quale, con percentuali simili, l’Italia è stata condannata in passato dalla Cedu, la Commissione europea per i diritti dell’uomo. Quando inizia il processo la ragazza ungherese lamenta le difficili condizioni della propria detenzione. E ha pienamente ragione, dal momento che l’Italia, in misura maggiore rispetto al suo Paese, l’Ungheria, detiene umilianti primati di condanne in Europa non solo per le condizioni delle proprie carceri, ma anche per l’amministrazione della giustizia in genere. Inoltre, l’imputata viene portata nell’ aula del tribunale italiano in ceppi e catene, e giustamente nel paese del presidente Orban sale un movimento di protesta. Tanto che all’udienza successiva nell’aula dove si celebra il processo, arrivano diversi parlamentari ungheresi, i quali dichiarano che l’Italia non è un Paese democratico. E fino a qui ci siamo.

Ma immaginate che cosa sarebbe successo in Italia se la protesta si fosse spinta oltre. E cioè se avesse coinvolto anche il giudice, che è indipendente e terzo rispetto alle parti, e soprattutto rispetto al governo, nel momento in cui ha respinto la richiesta di trasformare la detenzione in carcere in arresto domiciliare. E ha motivato il provvedimento sulla base dei precedenti penali dell’imputata e sul suo comportamento che, secondo il magistrato, la rende pericolosa e propensa, una volta fuori dal carcere, a rendersi latitante, cioè a scappare. Immaginiamo che a quel punto la delegazione dei parlamentari ungheresi, guidata da un famoso vignettista, avesse alzato il tono della protesta. Fino a scagliarsi contro il proprio presidente Orban, reo di non aver fatto sufficiente pressione sul governo Meloni perché costringa quel giudice indipendente a concedere l’arresto domiciliare per la ragazza ungherese.

E immaginiamo l’effetto in Europa se la leader di un partito di destra ungherese avesse deciso di portare a Bruxelles e Strasburgo come propria rappresentante politica quella ragazza presunta randellatrice di avversari politici di sinistra. Sottraendola in questo modo al giudizio di un tribunale. Che cosa penserebbero di tutto ciò Elly Schlein e soprattutto il sindacato delle toghe che tanto ha a cuore l’autonomia e l’indipendenza della magistratura? Penserebbero che in Ungheria c’è un regime totalitario che vuol sottoporre la magistratura ai diktat del governo. E anche che gli ungheresi sono una banda di fascisti e che trattano questioni serie come il processo e la detenzione, ma anche le elezioni europee, con grande superficialità.

Resta la tristezza di veder mettere in ombra, alla fine, la vera, unica questione su cui non si può transigere, cioè il rispetto della persona. Nessuno deve comparire in un’aula di tribunale con manette, catene e guinzaglio. Né in Italia, come è stato in passato e in qualche caso anche oggi, né in nessun altro Paese dell’occidente democratico. Questo è il vero problema politico, su cui è giusto interrogare i governi e le loro strutture amministrative, lasciando perdere le velleità di candidature elettorali di soggetti improbabili.