Secondo l’Anpi commemorare Sergio Ramelli nell’istituto tecnico che aveva frequentato è un’iniziativa «deviante» che confonde i nostri giovani, «un episodio estrapolato da una situazione storica che va contestualizzata». Un linguaggio orrendo e involuto per dire che, in sostanza, quel ragazzo massacrato in modo barbaro davanti il portone di casa non merita un ricordo pubblico perché era un militante di estrema destra, un iscritto al Fronte della gioventù, insomma un “fascista”.

Di certo a non sapere chi fosse Ramelli era il gruppetto di giovani che ha ha contestato la cerimonia in presenza della sottosegretaria all'Istruzione Paola Frassinetti, inscenando un piccolo presidio davanti all'Itis Molinari di Milano assieme agli esponenti della Rete Milano Antifascista Antirazzista Meticcia e Solidale, e dei sindacati di base Adl Cobas e Usb. «Lo diciamo senza censure, Ramelli era un picchiatore fascista!», ringhiano gli studenti. E con loro anche alcuni professori dell’istituto, una cosa questa che fa davvero impressione. Perché se l’ignoranza di un liceale è fisiologica e tollerabile, quella del suo insegnante diventa imperdonabile.

Lo sanno i docenti barricaderi del Molinari che Ramelli quando venne assassinato aveva l’età dei loro figli? Gli stessi per i quali si tormentano ogni giorno a causa di un’unghia scheggiata, una linea di febbre o magari perché si sono annoiati al corso di nuoto.

Sergio Ramelli fu ucciso il 13 marzo del 1975 alle 12.50 mentre rientrava a casa dalla scuola. Frequentava l’ultimo anno di un istituto privato perché al Molinari non poteva più starci, i collettivi antifascisti lo avevano puntato e picchiato a più riprese, una volta anche davanti al padre accorso a chiedere spiegazioni ai dirigenti scolastici: «Sergio è motivo di turbamento per tutti», fu il raggelante commento della preside prima che gli suggerisse di cambiare scuola.

Il commando era composto da militanti del servizio d’ordine di Avanguardia operaia. Lo avevano pedinato per diversi giorni, volevano conoscere orari e abitudini per essere sicuri di non fallire, di dargli la lezione che meritava. A sferrare i colpi sono Marco Costa e Giuseppe Ferrari Bravo (verranno condannati per omicidio preterintenzionale) e lo fanno con violenza inaudita, volteggiando la famigerata Hazet 36 la chiave inglese marchio di fabbrica della caccia ai “neri” e dell’antifascismo militante negli anni di piombo.

«Si stava coprendo il capo, io gli tiro giù le mani e lo colpisco , lui è stordito e si mette a correre, si trova il motorino tra i piedi e inciampa, cado con lui e lo colpisco un’altra volta, non so dove, al corpo, alle gambe», ha raccontato Costa durante il processo. Meno nitidi i ricordi di Ferrari Bravo: «Fu così breve che ebbi la sensazione di non aver portato a termine il mio compito». E invece lo avevano portato a termine: Ramelli è sdraiato a terra in una pozza di sangue, sul marciapiede ci sono alcuni frammenti di materia cerebrale. È in coma e muore 17 giorni dopo in un letto di ospedale.

Sergio Ramelli non proveniva da una famiglia fascista, i genitori votavano democrazia cristiana e non si interessavano di politica. Si iscrive al Fronte della gioventù a 16 anni per anticonformismo, al Molinari come in quasi tutte le scuole dell’epoca gli studenti di sinistra erano infatti la stragrande maggioranza. Inizialmente i camerati lo scambiano per una “zecca” perché aveva i capelli lunghi e non proprio l’aria dell’estremista attaccabrighe. Timido e taciturno non è mai stato un picchiatore uno che amava lo scontro fisico, ma neanche il fervore ideologico, «apprezzava Adriano Celentano ed era tifoso dell’Inter ma senza fanatismo», racconta la madre Anita a Luca Telese in Cuori Neri. Il fatto che sia stato identificato come un minaccioso squadrista fa parte di un vero e proprio processo di psicosi collettiva alimentata dal furore politico di quei tempi balordi.

Tutto inizia con un tema di italiano in cui Ramelli critica le Brigate Rosse definite un pericolo per la democrazia e un’organizzazione manovrata dall’alto. Quel compito in classe finisce non sa come nelle mani di un leaderino studentesco che appende i fogli protocollo in bacheca accanto a una scritta: “Ecco il tema di un fascista”. Così comincia la persecuzione di Ramelli e la catena di eventi che porterà al suo omicidio. Un giorno alcuni esponenti dei collettivi entrano nella sua classe e lo trascinano qualche minuto per i corridoi per sottoporlo a una breve gogna tra gli applausi dei compagni e l’indifferenza dei professori. Un’altra volta lo bloccano per le scale e lo pestano fino a fargli perdere i sensi. Le cose precipitano in un’escalation irrefrenabile che Ramelli accetta stoicamente, non chiedendo mai aiuto a nessuno, neanche ai suoi camerati, e finché gli è stato possibile, nascondendo tutto alla famiglia. Una morte annunciata quella del ragazzino milanese con lo sfregio finale dei commenti sarcastici dei suoi vecchi professori e il licenziamento di Anita Ramelli dalla tipografia in cui lavorava perché «madre di un fascista».

Una storia raccapricciante quella di Sergio Ramelli, che l’Anpi dovrebbe rispettare invece di infangare con le sue stucchevoli lezioncine, ma evidentemente per loro quel ragazzino massacrato a colpi di chiave inglese non merita neanche un fiore.