Il fatto di Palermo è, purtroppo, l’ennesimo attacco al genere femminile. Una macchia indelebile, lo stupro. A volte, è espressione della pura brutalità maschile, altre volte è lo sfogo di un rifiuto o di un’ossessione. Questa volta, è diventato spettacolo.

Da Beccaria, se ne è fatta di strada. Un tempo erano le pene ad essere spettacolarizzate per incutere timore. Oggi la spettacolarizzazione è capace di arrivare prima della polizia giudiziaria sulla scena del crimine. Sarà che le persone e le donne sono diventate più solidali tra loro, sarà che non se ne può davvero più di subire e restare in silenzio. Ma, mentre la gogna mediatica fa il suo lavoro, mentre i cortei manifestano e gli striscioni parlano, mentre le informazioni e le immagini circolano senza freni, ci sono loro: i carnefici e la vittima. Due ruoli opposti che, paradossalmente, proprio per gli effetti collaterali provocati dalla spettacolarizzazione sui fatti accaduti, possono coincidere fino a tramutarsi l’uno nell’altro.

È vero che a Palermo ha preso vita l’orrore. Ma più si grida al nemico e più quell’orrore si nutre divenendo, di fatto, uno stupro continuo. Si chiama vittimizzazione secondaria per la vittima del reato, perché è costretta a rivivere quei momenti, a rivedere quei volti, a risentire quelle mani, quelle risate, quei soprusi. Può chiamarsi tortura, per chi quel fatto lo ha commesso ma se ne vergogna, tanto da non riuscire più a guardarsi allo specchio. Può chiamarsi popolarità per chi, invece, ha giocato dall’inizio a fare il protagonista. Dentro quei fatti ci sono vite e storie diverse di cui si deve tener conto, ci sono ruoli e motivi diversi, azioni e omissioni diverse. I perché e i senza perché. Un no, o un sì che poi è diventato no. Ci sono i fatti e questi devono essere giudicati. Invece, si cercano volti e nomi. Si cercano i video dell’orrore. Si clicca, si condivide. Si gioca a fare la folla che scaglia la pietra sulla Maddalena. E più si colpisce, più la violenza aumenta. Maggiore è il clamore, maggiore è la propaganda. Le famiglie. Gli amici. I colleghi del lavoro. I compagni di scuola. I figli. Finisce tutto nel calderone e da lì, non se ne esce.

Per il codice penale, quei fatti di Palermo sono atti violenti che hanno offeso la sfera sessuale del soggetto passivo che li ha subiti, senza il suo consenso. Per la vittima, quei fatti, sono solo da dimenticare. Per i carnefici dovrebbero essere fatti da scontare secondo giustizia ma, a volte, forse come questa volta, potrebbero essere goliardia. E quando uno stupro diventa un trofeo, si scatena l’emulazione e a quel punto, altro che efficacia general preventiva della pena.

Quando i processi si svolgono in super direttissima davanti allo schermo, nessuna giustizia troverà corso, perché sarà solo vendetta, e questo non ce lo possiamo permettere. Possiamo e dobbiamo fare qualcosa. Possiamo creare più strutture di accoglienza per le donne e gli uomini vittime di violenza, che non denunciano perché non sanno dove andare. Possiamo creare più associazioni che svolgano un ruolo attivo sul territorio coadiuviate dalle forze dell’ordine e sovvenzionate dallo Stato. Possiamo fare di più. Ma tramutare quei carnefici nelle nostre vittime, questo non ce lo possiamo proprio permettere. Di vittima ce ne deve essere solo una e a questa bisogna portare il giusto rispetto per il suo dolore.