È evidente a chiunque osservi il dibattito pubblico nel nostro Paese: esiste una vicinanza – culturale, ideologica e, in senso ampio, politica – di alcune correnti della magistratura a determinati partiti. Già l’espressione “correnti”, che richiama le tradizioni di grandi formazioni politiche del passato, ha un suo fin troppo riconoscibile significato. Ebbene, è difficile sostenere che un quadro simile non provochi un cortocircuito.

Abbiamo tutti ben presente un principio: non basta che il giudice sia imparziale, è necessario anche che il cittadino possa riconoscere quell’imparzialità. Ebbene, quest’architrave della giustizia è fatalmente messo in discussione nel momento in cui il magistrato appartiene a una corrente idealmente vicina a un partito o a una certa area politica. E attenzione, perché qui non è in gioco soltanto l’immagine di terzietà: entrano in crisi anche l’indipendenza e soprattutto l’autorevolezza della magistratura. Come può quest’autorevolezza non essere scalfita, o addirittura seriamente compromessa dall’idea che un magistrato non sia effettivamente terzo né indipendente?

Non si tratta semplicemente di generiche assonanze culturali, ma di fatti concreti. Ci sono componenti dell’associazionismo giudiziario che si muovono in chiara sintonia con determinate forze politiche al punto che alcuni magistrati riconducibili a quelle correnti vengono candidati da quei partiti. Come si fa a non constatare l’appartenenza di quei giudici o pubblici ministeri a una ben determinata articolazione della politica? È il caso di magistrati, o ex magistrati da poco in quiescenza, che sono candidati addirittura come capilista. Ed è inevitabile che il cittadino colga una saldatura tra la corrente e il partito. Il che finisce per incidere inesorabilmente sull’autorevolezza e sulla credibilità dell’intera magistratura.

Tutti hanno diritto di candidarsi, certo. Ma è altrettanto indiscutibile che alcune funzioni dello Stato richiedano una particolare attenzione. Alcune delle norme contenute nella recente riforma dell’ordinamento giudiziario prevedono che un magistrato, dopo aver assunto funzioni di parlamentare, di componente del governo o di rappresentante nelle amministrazioni locali, non possa tornare immediatamente alle funzioni giurisdizionali, e che debba trascorrere un certo tempo in un’amministrazione dello Stato con ruoli diversi. Ma negli occhi del cittadino resta impressa una sequenza comunque poco rassicurante: vede un magistrato prima esercitare la propria attività nella giurisdizione e poi candidarsi sotto le insegne di un partito. Non va bene.

Credo che in questi anni tutti i cittadini, e non certo solo noi avvocati, abbiano assistito con preoccupazione all’indebolimento della magistratura. È chiaro che la commistione, l’intrecciarsi di componenti della magistratura con la politica può solo aggravare questo quadro. L’avvocatura è coinvolta da tutto questo, non può non sentirsi toccata dalla crisi che l’ordine giudiziario ha vissuto negli ultimi tempi. Anche perché finiamo per trovarci a difendere cittadini in un contesto in cui l’imparzialità del giudice appare messa in discussione.

È di queste ore il caso di un ministro della Repubblica che in un’intervista ha parlato di correnti della magistratura ispirate, nel loro programma, dall’idea di mettere in difficoltà il governo. Il fatto stesso che un’ipotesi del genere appaia quanto meno non inverosimile, che vi siano insomma delle circostanze tali da lasciar credere che sì, una parte della magistratura sia in contrasto con la politica, non ci rassicura. Non è un quadro coerente con l’idea di democrazia che dovrebbe derivare dalla separazione tra i poteri. E noi avvocati non possiamo, di fronte a questo, né nascondere la nostra preoccupazione né pensare di rimanere in silenzio.