La politica d’estate è spiazzante. Divora tutto con compulsiva indifferenza. Persino il caso Almasri è fagocitato dalla necessità di colmare l’inevitabile vuoto agostano con nuovi continui surrogati. Eppure i tornanti senz’altro decisivi attraversati dal mondo nelle ultime ore suggeriscono, molto indirettamente, un ritorno all’ordalia provocata dal militare-torturatore libico, dal suo rimpatrio e dalla conseguente richiesta, avanzata dal Tribunale dei ministri, di processare quattro componenti del governo per la gestione di quella vicenda.

Lo spunto viene in realtà dal preludio ai vertici promossi da Donald Trump prima con Putin e poi, due giorni fa, con Zelensky e i leader europei. Com’è noto, il presidente americano aveva accarezzato l’idea di incontrare lo zar russo nella nostra Penisola, più precisamente in Vaticano, ma con un protocollo che non è mai stato definito, ovviamente, e che magari avrebbe richiesto l’atterraggio in suolo italiano di un aereo con Putin a bordo. È un ipotesi dell’irrealtà: ma è impossibile trattenersi dal fantasticare sull’eventualità che Giorgia Meloni potesse sentirsi intimare la consegna del boss di Mosca alla Corte dell’Aia. Pretesa irragionevole, certo: ma la corsa alla cattura del criminale Putin avrebbe certamente entusiasmato larga parte dell’opinione pubblica.

Ci sono, sempre per restare all’astratta e immaginaria calata putiniana su Roma, ragioni di Stato che prevedono e sovrastano persino i procedimenti per crimini di guerra aperti dinanzi alla Corte penale internazionale. Ora, è noto anche, per tornare finalmente ad Almasri, come l’Esecutivo Meloni si sia ben guardato dal gestire la comunicazione sul rimpatrio del militare e torturatore libico come sarebbe dovuto avvenire con un problema di sicurezza nazionale. Tanto per essere chiari, il governo ha accuratamente evitato di riparare tutte le operazioni dello scorso mese di gennaio sotto l’ombrello del segreto di Stato. Un errore. Ma è difficile tacere che nell’atto con cui la magistratura (il Tribunale dei ministri per il tramite della Procura di Rima) ha chiesto al Parlamento, il 5 agosto scorso, l’autorizzazione a procedere contro Mantovano, Piantedosi e Nordio, l’intera impalcatura dell’accusa escluda proprio l’esigenza della sicurezza nazionale.

Ma soprattutto: l’esclusione di Giorgia Meloni dal quadro delle imputazioni, la richiesta di archiviazione che le tre giudici del Tribunale dei ministri hanno formulato per la premier, è funzionale, o per meglio dire coerente con l’idea che gli altri tre accusati, il sottosegretario e i due ministri, non abbiano agito per la tutela della sicurezza nazionale – idea che avrebbe implicato irrinunciabilmente un preciso ordine della presidente del Consiglio – ma per motivi diversi. Solo se si accantonava l’ombrello della sicurezza da preservare – cioè l’ombrello del segreto di Stato – la magistratura poteva accusare Mantovano e Piantedosi di aver, semplicemente, commesso favoreggiamento e peculato e Nordio di essersi macchiato pure di omissione d’atti di ufficio.

Se la richiesta di autorizzazione a procedere avesse colpito anche Meloni, sarebbe stato inevitabile confermare, anche solo indirettamente, che il caso Almasri aveva riguardato davvero esigenze di sicurezza, anziché torbide e non meglio decifrate connivenze transnazionali. Solo con Meloni archiviata, si può parlare di reati “ministeriali”, cioè commessi da un guardasigilli, un sottosegretario alla Presidenza e dal Capo del Viminale nell’autonomo esercizio delle loro funzioni.

Non siamo davanti a un abuso interpretativo, intendiamoci. Il Tribunale dei ministri propone una logica possibile. Che magari, da settembre in poi, la Giunta per le Autorizzazioni di Montecitorio smonterà. Ma che certamente terrà l’Esecutivo di Meloni, e di Nordio – il separatore delle carriere di giudici e pm – esposti alla tempesta ancora per un bel po’. Non appena agosto si sarà portato via con sé le abituali amnesie.