Lino Jannuzzi, professione reporter, certo, prima e più di ogni altra cosa. In subordine si potrebbe aggiungere “politico” essendo stato eletto per tre volte al Senato ma si dovrebbe scrivere anche “imputato”, perché Lino Jannuzzi alla sbarra ci è finito più volte e in fondo deve a quei processi anche le escursioni a palazzo Madama. Quando tutto cominciò, nel 1967, Raffaele Jannuzzi detto Lino, classe 1928, era capo del politico nel settimanale allora più d'assalto che ci fosse, L'Espresso.

Da4 anni la direzione era passata dalle mani di Arrigo Benedetti a quelle iperdinamiche di Eugenio Scalfari. In 12 mesi le vendite avevano raggiunto le 100mile copie e Scalfari era lanciatissimo. Il 3 maggio di quel 1967 Jannuzzi seguiva alla Camera un dibattito sonnacchioso. L'argomento, per la verità, era il più incandescente che ci fosse, lo scandalo Sifar, esploso in seguito alla guerra a colpi di dossier tra il generale ex capo del Sifar ed ex comandante dei carabinieri De Lorenzo, militare “democratico”, e il suo superiore generale Aloia, invece di destra e anche piuttosto radicale.

Era venuto fuori che ai tempi di De Lorenzo e del successore da De Lorenzo indicato Viggiani il servizio segreto spiava e schedava a manetta un'infinità di persone, a partire dai politici di ogni partito. Roba molto forte ma che teneva banco da oltre un anno, nulla di troppo eccitante. Ad aprire la seduta era il socialista Luigi Anderlini, dirigente ma non di primo piano.

Nessuno dei cronisti presenti prestò troppa attenzione quando l'oratore alluse a una manovra militare a dir poco irrituale nell'estate del 1964. Jannuzzi invece drizzò le orecchie. A fine seduta si precipitò da Anderlini, gli strappò il nome della sua fonte, Pasquale Schiano, anche lui socialista, dal quale il cronista ottenne una lista di graduati dell'Arma. Jannuzzi, irpino, era figlio di un maresciallo dei Carabinieri e seppe sfruttare al meglio la pur vaga appartenenza alla grande famiglia. Fece l'amicone, giurò di voler soprattutto difendere l'onorabilità dell'Arma, messa a rischio da poche mele marce.

Ottenne un bottino prezioso, indiscrezioni sulla riunione del 14 luglio 1964, quando De Lorenzo aveva riunito a Roma tutti i vertici dei Carabinieri per dirgli di tenersi pronti a far scattare il Piano Solo, così chiamato perché a eseguirlo dovevano essere solo i carabinieri, ove nella crisi politica in corso ci fossero state violenze di piazza, come nel luglio 1960. L' 11 maggio il settimanale di Scalfari uscì denunciando un progetto di golpe appena 3 anni prima, con l'inchiesta di Jannuzzi che campeggiava nel fascicolo. Il botto fu tanto fragoroso da eclissare persino lo scandalo Sifar. Per mesi L'Espresso martellò senza misercordia sia sul generale De Lorenzo che, soprattutto, sull'ex presidente della Repubblica Antonio Segni. È probabile che Scalfari, almeno da un certo momento in poi, cercasse la querela di De Lorenzo, unica via per aggirare il muro di gomma della politica. La querela arrivò in ottobre, il processo iniziò

in novembre e fu il grande scandalo della politica italiana in quella fase storica. Il pm Occorsio chiese l'archiviazione. La Corte rifiutò. Jannuzzi, annusando la mala parata, rese solenne testimonianza secondo cui Segni non era minimamente coinvolto nel fattaccio. Occorsio, nella requisitoria, in gennaio, chiese l'assoluzione. Il primo marzo 1968, con una sentenza che indignò anche buona parte della maggioranza di centrosinistra, condannò invece Jannuzzi a 16 mesi e Scalfari a 17.

Per garantire ai due giornalisti l'immunità parlamentare il Psi li candidò e fece eleggere entrambi. Anche De Lorenzo, a ogni buon conto, scelse di farsi proteggere dall'immunità e accettò la candidatura offertagli dai monarchici. Poco dopo querelò il nuovo direttore dell'Espresso, Corbi, per gli stessi motivi ma stavolta una sentenza diamentralmente opposta a quella ai danni di Jannuzzi e Scalfari gli diede torto.

Jannuzzi tornò sul banco degli imputati alla fine degli anni ' 90. Nel frattempo aveva fondato il Velino, contribuito a far nascere Radio Radicale ed era diventato direttore del Giornale di Napoli. Da quelle colonne aveva criticato con grande durezza e anche con grande precisione l'inchiesta che aveva mandato ingiustamente in galera il popolarissimo presentatore Enzo Tortora. Il giudice istruttore Giorgio Fontana lo denunciò e nonostante fosse già chiaro che ad aver ragione era il giornalista vinse la causa. Perché i magistrati che avevano imbastito quel processo non erano stati messi neppure sotto inchiesta, dunque dire che la loro inchiesta era piena di errori non si poteva. Jannuzzi fu condannato a due anni e passa di galera. Non pago Fontana denunciò di nuovo il direttore e il cronista Sergio De Gregorio per aver scritto, dopo la morte di Tortora, che la persecuzione di cui era stato vittima aveva molto a che fare con la sua malattia. Stavolta la condanna fu a un risarcimento di 280mila euro. Forza Italia, nel 2001, candidò e fece eleggere Jannuzzi ma l'immunità parlamentare non era più quella di un tempo.

Nel 2004 il giornalista finì ai domicialiri, pur essendo senatore, e sarebbe probabilmente arrivato anche al carcere se nel 2005 il presidente Ciampi non lo avesse graziato. Lino Jannuzzi finì sotto processo anche per aver denunciato nel 2001 un vertice segreto in Svizzera tra quattro magistrati nel quale il piatto forte sarebbe stato l'arresto di Silvio Berlusconi. Ma in quell'occasione a essere condannati a pagare un salatissimo risarcimento furono la Mondadori e il direttore responsabile di Panorama. La professione del reporter ha volte è spericolata. Di solito, come nel caso di Lino Jannuzzi, quando si è grandi giornalisti.