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La vita del Prof. Giovanni Conso, nato a Torino il 23 marzo 1922 e scomparso a Roma il 2 agosto 2015, è stata un continuo crescere per dedicarsi all’impegno accademico e istituzionale, fino a sfiorare la Presidenza della Repubblica. E la vita di quest’uomo, mite e onesta, ha dimostrato quanto la ragion di Stato sia in grado di stravolgere meriti e programmi.
Già in occasione dell’elezione del Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura nel 1976 molti ne conoscevano la garbata indipendenza, ossigeno raro negli organi di alto profilo pubblico: a Conso, giurista di prestigio e padre della procedura penale, fu perciò inizialmente preferito lo sfortunato Vittorio Bachelet, provvisto di influenti simpatie politiche.
L’assassinio di Bachelet per mano delle Brigate Rosse portò Conso al vertice del CSM per soli tre mesi: col senno di poi fu proprio la mancata elezione del professore all’insediamento del Consiglio nel 1976 a salvargli la vita e a proiettarlo verso ruoli ancora più rilevanti. Per l’equilibrio dimostrato durante l’esperienza consiliare fu naturale per il Capo dello Stato, Sandro Pertini, nominarlo, nel 1982, giudice della Corte costituzionale, di cui Conso divenne presidente, nuovamente per pochi mesi sul finire del 1990, dopo la pubblicazione della celebre sentenza di ammissibilità dei referendum di Mario Segni in materia elettorale, spartiacque tra prima e la seconda Repubblica.
In un contesto politico confuso eppure dialogante, le discusse dimissioni di Francesco Cossiga nel suo ultimo anno di mandato al Quirinale anticiparono l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Il 1992 fu annus horribilis nel pieno delle inchieste sulla corruzione politica che avevano accentuato la percezione di sfiducia verso istituzioni e personalità fino allora all’apice del potere e accelerato il conflitto sociale al cui colpo di grazia provvidero, negli anni successivi, leggi elettorali erosive della personalità e dell’eguaglianza del voto popolare.
Gli eventi istituzionali erano segnati dall’incertezza e il Parlamento convocato dal 13 maggio 1992 in seduta comune con i delegati delle Regioni faticava non poco a individuare una personalità credibilmente distante dal potere politico, mai così inviso prima di allora, da eleggere come successore di Cossiga.
Dopo i primi scrutini, la mancata elezione di Arnaldo Forlani e gli isolati omaggi ai candidati di bandiera Giuseppe De Martino, Nilde Iotti e Arrigo Miglio, l’attenzione si concentrò sui giuristi Giuliano Vassalli e Giovanni Conso, il primo dei quali aveva già raccolto i consensi dell’area progressista.
Il 22 maggio 1992, giorno prima della strage di Capaci, al 14° scrutinio Vassalli ebbe 351 voti e Conso 253: la somma dei consensi avrebbe portato all’elezione sicura di uno dei due. La mattina del 23 maggio 1992 fu definito l’accordo sul nome di Conso che, ritirata la candidatura di Vassalli, ebbe il maggior numero di voti all’esito del 15° scrutinio. Tanto era certa e imminente l’elezione del Prof. Conso che un intervento della Presidenza del Consiglio dei Ministri impedì al giurista, in partenza a Urbino per un convegno, di lasciare la capitale. Conso spiegò l’importanza dell’impegno accademico ma dovette desistere e, trattenuto a Roma nell’abitazione di fronte al Viminale nel frattempo circondata di forze dell’ordine, ricevette la sollecitazione a predisporre il discorso di insediamento che dettò personalmente alla sua segretaria.
Nelle stesse ore in cui il Parlamento si accingeva a eleggere il giurista torinese, l’attentato a Giovanni Falcone cambiò la sorte di cinque vite e insieme il corso democratico dell’elezione presidenziale, con lo Stato piegato a Cosa Nostra e, il 25, Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, mentre Giorgio Napolitano, molto legato a Conso, saliva sullo scranno più alto di Montecitorio. Senza la mafia nelle variabili delle scelte di Stato Conso sarebbe divenuto il nono presidente.
Nel tracciato di quelle stesse variabili, avendo sempre accanto i suoi allievi e collaboratori più stretti, tra i quali Marcello Maddalena, Procuratore a Torino, depositario di tanti aneddoti, e Otello Lupacchini, magistrato distintosi per il forte impegno nel contrasto alla criminalità organizzata, il suo cammino nelle istituzioni non si fermò, né mutò il rigore morale conservato al prezzo di pagare colpe non sue: nominato Ministro della Giustizia nei governi Amato e Ciampi, continuò a preservare l’indipendenza tecnica ingiustamente fraintesa molti anni dopo il 1993 quando, per ragioni umanitarie, non ritenne di rinnovare, com’era nel potere del Guardasigilli, il carcere duro decretato dal suo predecessore a esponenti di secondo piano della criminalità organizzata. Il giurista aveva deciso, nel rispetto del dettato costituzionale, di dar concretezza ad anni di studio e ricerca sul divieto di trattamenti inumani e degradanti della pena, nella cui finalità rieducativa ha creduto fino agli ultimi istanti di vita.
Conso, che assunse su di sé la responsabilità dell’iniziativa dopo aver ascoltato molto e dialogato con il Capo dello Stato Scalfaro, non affidò mai il dolore intimo per l’ingiusto addebito a pubbliche esternazioni, che avrebbe potuto autorevolmente diffondere mettendo a rischio il suo proverbiale riserbo, né mutò di una virgola il rispetto delle Istituzioni servite con umanità e abnegazione fino alla Presidenza della Repubblica appena sfiorata. Se il suo esempio fosse stato correttamente ascoltato e compreso, oggi non staremmo a dibattere intorno a quell’eccezionale regime sanzionatorio primitivo e intollerabile che consuma esseri umani – non sempre esponenti di spicco della criminalità – in drammatiche condizioni di salute e degrado. Mentre noi, società di giudici delle sole sorti altrui, stiamo alla finestra a osservare Nemesi che strappa le pagine della Costituzione.