Durante l’occupazione nazista (1943-1944) Roma era una fornace di conflitti, città turbolenta e riottosa, addirittura «esplosiva» per usare le parole che pronunciò il maresciallo Albert Kesserling nel corso del suo processo, attraversata quotidianamente da attentati e atti ostili verso i militari stranieri, insomma una destinazione complicata per un ufficiale tedesco. L’imboscata di Via Rasella ha rappresentato il culmine di quell’attività clandestina che da mesi esasperava gli occupanti e fu il più sanguinoso atto terroristico anti-nazista in una città dell’Europa occidentale (trentatré morti e decine di feriti). Appena 15 giorni prima a via Tomacelli tre fascisti italiani appartenenti alla milizia Onore e combattimento persero la vita in un attacco lanciato a colpi di bombe a mano, un’azione riuscita in cui gli autori riuscirono a dileguarsi. E che diede l’impulso per altre, più ambiziose iniziative di resistenza armata.

È vero come afferma il presidente del Senato Ignazio La Russa che le vittime di via Rasella non erano degli spietati nazisti rastrellatori ma «una banda di musicisti in pensione»? E che gli autori di quell’attentato furono i principali responsabili della rappresaglia successiva con l’eccidio dei 335 antifascisti delle Fosse ardeatine?

Per rispondere a queste domande bisogna innanzitutto prenderle sul serio, entrando nel merito delle obiezioni.

Chi erano dunque i 156 membri dell’11esima compagnia del I battaglione del Reggimento di Polizia tedesca (Polizeiregiment) Bozen?

Si trattava di una unità composta da militi altoatesini (o sud tirolesi) comandati da ufficiali provenienti direttamente dalla Germania. Una forza di polizia, che agiva sotto l’egida delle Ss di Heinrich Himler a cui faceva riferimento. Di certo non erano il reggimento più feroce e in prima linea durante l’occupazione romana ma neanche dei cherubini dediti all’arte come ha invece suggerito La Russa: la loro attività principale era di polizia, che in una città occupata significa il monitoraggio delle attività eversive e dei gruppi partigiani.

La genesi dell’attentato del 23 marzo 1944 e la storia personale dei suoi autori è utile per mettere in prospettiva i fatti. Chi erano i resistenti che hanno teso l’imboscata al battaglione Bozen?

L’azione fu organizzata e rivendicata dai Gap (Gruppi di azione patriottica) costituiti nel 1943 dal Partito Comunista Italiano (PCI) e da altre forze antifasciste, con lo scopo di organizzare azioni di sabotaggio e omicidi mirati contro le truppe tedesche e i collaborazionisti italiani.

I partigiani romani avevano in mente da tempo un’azione clamorosa contro le truppe tedesche che soffocavano la città nella morsa della repressione, un atto cruento e dimostrativo allo scopo di «scuotere la popolazione, eccitarla in modo che si sollevasse contro i tedeschi», come spiegò in seguito il gappista Roberto Bentivegna, l’uomo che, travestito da spazzino, fece brillare fisicamente l’esplosivo al passaggio dei soldati. Tra le difficoltà incontrate dai Gap c’è un dettaglio che oggi parrebbe inverosimile: la mancanza di spazzatura, necessaria per riempire i bidoni e nascondere il tritolo. Fu raccolta con pazienza qualche giorno prima nella periferia della città.

Nelle settimane precedenti l’attentato alcuni gappisti notarono i comportamenti abitudinari del battaglione Bozen, che ogni giorno percorreva in colonna le strade tortuose del centro di Roma, un bersaglio relativamente facile e la salita ripida e stretta di Via Rasella era il punto ideale del percorso per sferrare l’attacco dinamitardo e causare più danni possibili.

Le cariche d’esplosivo erano state nascoste all’interno di un bidone della spazzatura mentre alcuni partigiani, circa una decina, si erano appostati con bombe a mortaio e fucili nelle vie limitrofe per attaccare i tedeschi dopo la deflagrazione.

A dare il segnale un altro gappista, Franco Calamandrei, nome di battaglia “Cola”, che si toglie il cappello quando il battaglione raggiunge il punto stabilito. Sul posto anche Carla Capponi, che ha in braccio un impermeabile, sotto il quale nasconde l’uniforme da spazzino di Bentivegna, permettendogli di lasciare in sicurezza la scena dell’attacco. Che dal punto di vista militare riesce perfettamente: l’esplosione è infatti così violenta da spazzare via il battaglione, (almeno 55 i feriti gravi) il quale, disorientato, viene tempestato per diversi minuti dai fittissimi colpi d’arma da fuoco. Poi la fuga, verso Piazza Vittorio dove giungono tutti illesi.

La notizia della strage giunge rapidamente in Germania tra lo sgomento e la rabbia di Adolf Hitler: ed è direttamente il fhurer a ordinare la tremenda rappresaglia del giorno successivo (10 italiani per ogni vittima tedesca più tre partigiani aggiunti all’ultimo).

I gappisti erano consapevoli che la reazione dei tedeschi sarebbe stata impietosa e sproporzionata come sostiene La Russa? Di certo si aspettavano una risposta dura ma non di certo il rastrellamento casa per casa e il massacro delle Fosse ardeatine. Ma in ogni caso attribuire ai partigiani la responsabilità di quei 335 morti è un’argomentazione capziosa che nega ai popoli la resistenza all’oppressione, sancita invece anche dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e che giustifica qualsiasi forma di sopruso.

C’è poi chi sostiene che i gappisti avrebbero potuto consegnarsi ai tedeschi per evitare l’eccidio di italiani, argomentazione, questa, che non sta proprio in piedi da punto di vista logico: la carneficina delle Fosse ardeatine è infatti avvenuta il giorno dopo l’attentato di via Rasella, il 24 marzo del 1944. Da parte tedesca peraltro non ci fu nessuna promessa di risparmiare in tal senso la vita ai civili. Come ammise in seguito Herbert Kappler, capo della Gestapo a Roma, nella sua deposizione, la strage fu coperta dal segreto fino a quando non venne portata a termine.