A oltre 4 mesi dal più disastroso rovescio militare dalla sua nascita in poi Israele si trova oggi nella situazione politicamente più difficile della sua storia. È lecito chiedersi se e quanto gli interessi personali del premier Benjamin Netanyhau abbiano contribuito a determinare questa estrema difficoltà.

L'elemento che più di ogni altro spinge Israele nell'angolo è l'isolamento internazionale. Lo Stato ebraico non se ne è mai curato troppo, consapevole di poter contare comunque su un appoggio degli Usa quasi incondizionato. Stavolta però la situazione è molto più critica di quanto sia mai stata, incluso il momento peggiore, l'invasione del Libano del 1982. A livello di opinione pubblica mondiale l'immagine di Israele non è mai stata altrettanto devastata: le stragi di civili, per quanto probabilmente gonfiate siano le stime di Hamas, hanno un contraccolpo emotivo sulle popolazioni occidentali che non si limita alle aree da sempre e per sempre pro-Pal ma mette in difficoltà morale anche i più filoisraeliani. L'Europa teme ricadute disastrose su un’economia già molto provata prima dal Covid, poi dalla crisi energetica seguita all'invasione dell'Ucraina.

Nell'anno di una campagna elettorale tutta in ripida salita, Joe Biden non può permettersi di perdere il voto non solo dei musulmani ma anche di ampie fasce dell'elettorato democratico, sbigottito di fronte all'appoggio sin qui incondizionato di Washington all'attacco su Gaza. Un presidente già molto discusso per l'età e il calo di lucidità non può neppure permettersi di essere ridicolizzato dall'assoluta e vistosa impermeabilità di Israele ai suoi suggerimenti e alle sue richieste, per quanto imperiose. Dunque, per la prima volta il sostegno di Washington a Tel Aviv inizia a non essere più incondizionato.

L'altra faccia dello scacco a cui è sottoposto lo Stato d'Israele è militare. A fronte della estrema violenza e brutalità dell'attacco i risultati sul fronte sono, o almeno appaiono, esigui: solo tre ostaggi liberati, il capo militare di Hamas libero e in circolazione a Gaza, la forza militare del gruppo terrorista islamico colpita ma non piegata, buona parte del sistema di tunnel costruito nel corso degli anni ancora in funzione. Hamas non può vincere sul piano del fronteggiamento armato, naturalmente. Ma può vincere politicamente: a questo mira e questo risultato può oggi raggiungere. Se, dopo la mattanza, l'organizzazione islamica sarà ancora in grado di governare Gaza, di mantenere una presenza armata e di riorganizzarla la sconfitta di Israele sarà totale. Il dilemma dell'attacco a Rafah è tutto qui ed è enorme. Attaccarla vuol dire per Tel Aviv bruciare molto ponti con i Paesi occidentali, forse tutti. Non attaccare significa correre il fortissimo rischio di perdere la guerra politicamente.

Netanyahu ha le sue numerose responsabilità. La reazione di Israele era inevitabile e in realtà la stragrande maggioranza degli israeliani la pensa così. L'attacco a Gaza, dopo il 7 ottobre, era nell'ordine delle cose. Ma Bibi si è mosso portando alle estreme conseguenze, e quasi ostentando, la massima incuria per la sorte dei civili, considerandoli tutti alla stregua se non di nemici armati almeno come sacrificabili. Hamas usa lo stesso metro e lo ammette chiaramente, afferma di aver bisogno delle vite dei suoi civili per rinfocolare li spirito guerriero dei palestinesi, ha le sue enormi responsabilità non solo nell'attacco del 7 ottobre ma anche nel fare il possibile per massimizzare il numero delle vittime, con l'obiettivo di vincere sul piano politico e dell'immagine la guerra. Ma proprio la consapevolezza di questa strategia, cinica ma non insensata, di Hamas avrebbe dovuto suggerire di muoversi con determinazione ma anche con cautela, mostrando di voler fare almeno tutto il possibile per risparmiare i civili per quanto possibile.

Netanyahu si è mosso in direzione opposta. Ha cercato di rendere la guerra lunga e feroce invece che quanto più breve e chirurgica possibile. Impossibile dire se lo abbia fatto per calcolo o per errore, e nel caso sarebbe l'ultimo di una serie interminabile. Ma è un fatto che la permanenza di Netanyahu al governo non sopravviverà alla fine della guerra e ad aspettarlo potrebbe esserci non solo l'uscita di scena ma anche il carcere. L'uomo ha tutto l'interesse a prolungare la crisi, nella speranza che qualcosa arrivi a salvarlo, magari la vittoria di Donald Trump a novembre.

Netanayahu ha portato Israele a una lacerazione senza precedenti che ha probabilmente pesato nell'impreparazione del Paese il 7 ottobre. Si è disinteressato di Gaza e ha di fatto agevolato Hamas interessato solo alla colonizzazione della Cisgiordania. Si è fatto cogliere di sorpresa dall'attacco di Hamas. Tuttavia le sue dimissioni immediate non sono state reclamate, perché non si poteva lasciare un Paese in enorme crisi politica come Israele senza un governo nella guerra. È un ragionamento forte e fondato ma è possibile che tenere Bibi al governo sia ugualmente la scelta peggiore.