La vicenda che contrappone il governo italiano alla famiglia Cavallotti ( e i tanti procedimenti connessi, dei quali ancora si parla solo tra gli addetti ai lavori) non poteva passare sotto il silenzio di quella parte dell’opinione pubblica che, ai ragionamenti tecnici – che siano giuridici, filosofici o sociologici non importa – preferisce la retorica del “nemico alle porte”, dello stato d’assedio, del “dagli all’untore”. Quella fazione di pensatori, sia consentita questa breve digressione, che vanno in Parlamento, dopo cinquant’anni in Magistratura, a rimproverare al governo di voler abolire i “reati penali” ( è vero, è stato detto proprio così), mentre tutti gli operatori del diritto, magistrati compresi, invocano provvedimenti deflattivi, ivi compresa una robusta depenalizzazione.

Ma certo, chi ha esercitato l’ufficio del Pubblico Ministero sa che l’obbligatorietà dell’azione penale è un’ottima giustificazione per controllare le vite degli altri, l’economia privata e pubblica, la politica, specie giudiziaria. E allora, più fattispecie di reato ci sono, più occasioni di ingerenza si presentano.

Ecco perché si osteggia l’abrogazione dell’abuso di ufficio, contenitore indefinito di ogni condotta possibile, e utilissimo varco di ingresso del potere giudiziario in quello esecutivo. Una avversione culturale e non tecnica, tanto che, immancabilmente, chi difende l’abuso di ufficio lo contrabbanda - senza spiegare il perché - come “reato- spia” dell’infiltrazione mafiosa nelle amministrazioni pubbliche. E invece, non hanno capito che l’abolizione dell’abuso è una reazione “anticorpale” rispetto alla pletorizzazione della contestazione di questo reato, con migliaia di processi finiti nel nulla; decine di migliaia di pubblici amministratori indagati, imputati, cautelati ( soprattutto), decaduti e poi assolti; centinaia di amministrazioni sciolte; indagini caratterizzate da “pregiudizio accusatorio”, secondo le parole della Cassazione, e ispirate alla “moralizzazione della cosa pubblica”, secondo le parole di un ( ex) Pm.

Il parallelo è utile per comprendere che anche le prese di posizione contro l’attuale normativa in materia di prevenzione sono una reazione “anticorpale” all’abuso che se ne è fatto. Scrivono bene, gli avvocati dei Cavallotti, quando ricordano che la prevenzione è risorta dalle proprie ceneri in uno stato di eccezione, quando occorreva prendere contromisure drastiche e immediate al fenomeno mafioso nella sua fase storica più violenta e antagonista. Gli stessi lavori preparatori alla Rognoni- La Torre segnalavano profili di incostituzionalità della riforma, specie sul versante delle misure patrimoniali, ma ritenevano che il rischio andasse corso, per la finalità di quel contrasto e per il ristretto ambito territoriale della sua applicazione.

L’operazione meno corretta che si poteva fare di questo “arnese” era di utilizzarlo in altri contesti e per altri fini. E invece, nella stessa

ottica di “controllo”, emergenza dopo emergenza, maggioranza dopo maggioranza, nella prevenzione ci sono finiti evasori, stalker, corrotti, maltrattanti, malversatori, ravers, hooligans, sex offenders, omicidi, bambini e qualsiasi criminale comune ( ladri, truffatori, “appropriatori indebiti”, insolventi con frode) che abbia percepito il prezzo, il prodotto o il profitto del reato. Ma, attenzione, non necessariamente i colpevoli, tali dichiarati con sentenza irrevocabile, quanto preferibilmente gli “indiziati”; coloro per i quali “debba ritenersi che”. Anche se morti. Anche se assolti.

Quanto può sopravvivere una Legge, nata nel sospetto di incostituzionalità e alimentata di continui frutti di quel peccato originale? La prevenzione paga oggi la smodata ingordigia di chi l’ha governata per decenni in modo “predatorio” e sciolto da tutte le altre Leggi; di chi, snaturandola, ne ha fatto uno strumento di punizione dei ( più disparati) crimini non accertati; di chi ha tradito le rationes e le intentiones della Legge 1423/ 56, per imbastire un sistema che vive della negazione delle garanzie del giusto processo, per arrivare a punire senza accertare.

Di questo si discuterà davanti alla Cedu mentre la politica cerca una inaspettata convergenza tra maggioranza e opposizione, per neutralizzare la probabile decisione dei Giudici europei. La seconda, in commissione Antimafia, chiede di acquisire copia delle sole memorie trasmesse a Strasburgo dalla Avvocatura dello Stato e non delle controdeduzioni dei Cavallotti; la prima, in commissione Giustizia, presenta una ennesima proposta di riforma capace, come scrive Errico Novi su questo giornale, di “tenere in piedi i pilastri del codice antimafia, anche qualora la Cedu condannasse l’Italia in materia di confische”.

Nel frattempo, un altro storico ex magistrato, dalle colonne di un quotidiano, ribadisce la vicinanza dei Cavallotti a Provenzano e suggerisce alla Avvocatura dello Stato di difendere “i nostri interessi” anche proiettando in aula i filmati sulla storia criminale della mafia, così da evitare che i giudici della Cedu imbocchino “percorsi autistici”.

Sorprende che un tale giurista non accetti, culturalmente, le sentenze definitive di assoluzione, secondo le quali quegli imprenditori erano vittime e non soci della mafia. Occorre che se ne prenda atto, perché il tempo delle “frodi”– almeno in Europa – sembra essere finito.

Ma sorprende ancora di più la concezione che si dimostra di avere nei confronti della Corte Europea. Come se la decisione di quei Giudici possa essere orientata da un filmato.

Come se mostrare i torti della mafia possa nascondere e giustificare i torti dello Stato contro degli innocenti.