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Un messaggio di "Potere al Popolo" per Alfredo Cospito, detenuto in regime di 41 bis
Sul caso Cospito si sta scrivendo tanto e la mobilitazione di intellettuali e dei ceti meglio strutturati della pubblica opinione è possente. Tuttavia, il crollo visibile dell’egemonia culturale esercitata per decenni dalla sinistra italiana, e dai circoli radical dell’intellighenzia a lei vicina, rischia di veder assestato un altro duro colpo da una sorta di latente irritazione che pervade strati non marginali della pubblica opinione nazionale a sentire discutere della sorte dell’anarchico.
Il regime di carcere duro, il cosiddetto 41- bis, riguarda circa 800 detenuti nelle carceri italiane, in massima parte si tratta di mafiosi e di appartenenti alla variegata costellazione delle associazioni malavitose meridionali. Sollevare il caso di Alfredo Cospito e sostenere - come ha fatto un paio di giorni or sono il vicesindaco di Bologna, Emily Clancy – che il lungo sciopero della fame dell’anarchico «interpella le nostre coscienze e solleva questioni di etica e di diritto fondamentali» rischia di andare a impattare contro il fastidio giustizialista che pervade profondamente ormai la società italiana. Affiora qua e là l’impressione che ci sia una sorta di difesa “a uomo” praticata ideologicamente a favore di uno e a discapito degli altri.
E’ evidente che l’anno appena concluso, con i suoi 84 suicidi nelle celle, imporrebbe di volgere lo sguardo alla complessiva condizione dell’intera popolazione carceraria italiana e, tra essa, dei detenuti che vivono la più dura delle condizioni, quella appunto del 41- bis. Un problema enorme sinora messo in disparte dalle ricorrenti emergenze criminali il cui affievolirsi, come al ritirarsi della piena di un fiume tumultuoso, comincia a restituire macerie e rovine. Tre le questioni sul campo.
La prima è che occorrerebbe che il legislatore e la Corte costituzionale ponessero fine a quella “truffa delle etichette” che da circa trenta anni consente, nell’ordinamento italiano, l’applicazione di misure durissime giustificandole sotto l’ombrello ad ampio raggio della cosiddetta prevenzione. Questo è l’unico paese al mondo in cui, in nome appunto della prevenzione, si mantengono sistemi carcerari eccezionalmente severi, si prevedono confische di patrimoni e imprese, si eliminano dal mercato dozzine di società con il sistema delle interdittive prefettizie, si autorizza un numero totalmente sconosciuto e imprecisato di intercettazioni (appunto) preventive da parte delle forze di polizia con la sola autorizzazione del pubblico ministero. Uno sterminato arsenale di proibizioni e di divieti che hanno una precisa valenza sanzionatoria, anzi in molti casi repressiva, e che una sorta di autoassolutorio rito collettivo esorcizza e giustifica in nome della “prevenzione”, guardandosi bene dal classificare e descrivere la sostanza delle conseguenze e la durezza degli effetti personali e patrimoniali che i cittadini (quasi sempre solo sospettati di reati) pagano al cospetto di questi apparati.
Da questo punto di vista l'ergastolo ostativo, il carcere a 41- bis, le confische di prevenzione, le misure interdittive prefettizie, le certificazioni, le white list imprenditoriali, la data retention pluriennale del traffico telefonico e telematico sono nient’altro che i pilastri di un edificio repressivo che nella sostanza opprime settori non esigui della società e segna il vero gradiente delle libertà economiche e dei diritti soggettivi nel nostro paese.
Il fatto che, con l’avallo della giurisdizione costituzionale, tutto questo appartenga allo sterminato e nebuloso mondo della cosiddetta prevenzione, che ogni congegno sia stato celato negli anfratti di una notte buia in cui tutto è poco chiaro grazie anche al fatto di essere descritto da norme ad ampio compasso rese da un legislatore distratto e accondiscendente - non vuol dire che non ci sia la necessità di pulire il lessico che si adopera quando, come nel caso di Cospito e non solo – si invocano ragioni di prevenzione per mantenerlo a carcere duro.
Per carità, è ovvio, che chiunque sia scoperto a complottare o a dare ordini da una cella merita una più dura segregazione per tutto il tempo necessario, ma irrogare il regime duro solo perché si paventa il pericolo di questi collegamenti equivale a misconoscere la natura afflittiva, punitiva di quel regime carcerario e a costruire un regime sanzionatorio “occulto” per il quale laschi e quasi inesistenti sono i controlli della giurisdizione.
La seconda questione è un diretto corollario della prima. Poiché si manipolano nozioni evanescenti, si adoperano concetti a grana grossa, si legittimano supposizioni e sospetti le pratiche di prevenzione si autoalimentano e sfuggono inevitabilmente a qualunque controllo. Se si irrorano a piene mani le informative di polizia con iperboli e congetture, con valutazioni e massime d’esperienza è evidente che non c’è scrutinio giurisdizionale che tenga e, alla fine, la potenza condizionante che la categoria concettuale del pericolo esercita sul giudice travolge la verifica degli elementi concreti celati dietro la cappa minacciosa dell’allarme sociale.
Da questo punto di vista sembra sempre più difficile continuare a legittimare l’intero sistema di prevenzione in forza dell’esistenza di un controllo giurisdizionale di fatto invischiato nella ragnatela di gerghi e di nozioni che non gli dovrebbero appartenere e che, in effetti, non appartengono alla magistratura in alcuna democrazia costituzionale.
La terza questione prende in esame il pericolo, incautamente ignorato, che la conclamata inefficacia del regime a carcere duro nel provocare pentimenti e collaborazioni con la giustizia (le cifre sono risibili in proposito) e, quindi, il volto puramente vendicativo dell’ergastolo ostativo senza prova di redenzione e della detenzione speciale crei una generazione di “irriducibili”.
Una sorta di élite criminale capace di esercitare una grande fascinazione proprio negli strati sociali più marginali e più esposti ai rischi della violenza terroristica o dell’affiliazione mafiosa. Più la detenzione viene percepita come un accanimento, più i detenuti resistono e si asserragliano nella loro disperata solitudine carceraria, maggiore è il rischio che siano percepiti all’esterno come gli epigoni di un oltranzismo inflessibile, come gli esponenti di un mondo che non si piega e minaccia per ciò solo di perpetuarsi. E questo malgrado le grandi vittorie dello Stato e l'enorme sacrificio che esse sono costate.