«I magistrati, per dettato costituzionale, devono essere imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento, al fine di evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità».

Non si tratta delle affermazioni di uno degli improvvisati giuristi che spuntano numerosi all’indomani dell’ennesimo scontro politica-giustizia, ma della Corte costituzionale ( sentenza n. 224/ 2009). Chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della norma che configura quale illecito disciplinare l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa del magistrato a partiti politici, la Consulta dettava alcuni principi che appaiono di stretta attualità nel commentare la oramai nota vicenda della collega di Catania.

In quella sentenza, i giudici di legittimità riconoscevano come i magistrati dovessero «godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino» e che, quindi, potessero «non solo condividere un’idea politica, ma anche espressamente manifestare le proprie opzioni al riguardo», sostenendo tuttavia che agli stessi, per la natura delle funzioni svolte, potessero essere legittimamente imposti speciali doveri. Pertanto, era ritenuta pienamente legittima la previsione di un illecito disciplinare non solo nelle ipotesi di iscrizione, ma anche in quella di «partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici», essendo anche quest’ultima suscettibile «di condizionare l'esercizio indipendente ed imparziale delle funzioni e di comprometterne l'immagine». Non è certo mia intenzione fare un processo sommario e pronunciarmi sulla riconducibilità o meno della condotta della collega Apostolico a questa o ad altre norme. È evidente, peraltro, come non sia in discussione, in detta vicenda, un’attività di collateralismo partitico in senso stretto.

Altrettanto incontestabile, tuttavia, l’impossibilità di sminuire le parole della Consulta, degradandole alla decisione di un caso concreto, non scorgendo in esse – invece – indicazioni di principio sull’individuazione della carta di identità del magistrato nell’attuale contesto storico. Indicazioni che militano decisamente nella direzione del self restraint nelle esternazioni delle proprie opinioni.

La mia personale esperienza mi porta ad affermare come la stragrande maggioranza dei magistrati, lontani dalle luci della ribalta, conoscano bene le limitazioni della vita privata e i sacrifici personali imposti dall’esercitare le funzioni giudiziarie.

Molti di essi, magari al Sud, in centri caratterizzati da una forte presenza della criminalità organizzata, hanno riempito di significato l’altrimenti vacuo concetto di “senso delle istituzioni” con privazioni e limitazioni di ogni tipo. Nelle proprie frequentazioni, nei propri comportamenti. Magistrati del genere esistono da decenni. Esistono tuttora e costituiscono, voglio credere, la maggioranza. Mi auguro fortemente che continuino ad esistere e che siano sempre di più.

È proprio questo il tema che dobbiamo affrontare al nostro interno: chi è il magistrato nell’assetto costituzionale. È vero, non è una discussione nata ieri. Tuttavia, essa va oggi affrontata a viso aperto, soprattutto dalle componenti associative: su un tema così essenziale, qual è la posizione di ogni gruppo? Lo si dica chiaramente, soprattutto ai più giovani. Se costoro intendono, auspicabilmente, impegnarsi in modo attivo nella vita associativa, aderendo a questa o quella corrente, devono sapere con chiarezza con chi stanno condividendo il loro percorso, altrimenti il rischio è quello di una cooptazione del tutto inconsapevole.

Un rischio che purtroppo è alimentato da una narrazione a mio avviso distorta dei fatti di Catania, che mette nello stesso calderone temi connessi ma ben diversi da quello, più basilare, che ho poc’anzi affrontato. Intendo dire che affermare di non condividere e non riconoscersi nella condotta extraprocessuale della collega Apostolico non significa legittimare i frequenti, violenti e spesso aprioristici attacchi all’esercizio della giurisdizione o il cosiddetto dossieraggio dei magistrati: deve essere chiaro che merito della decisione, rispetto della stessa, condanna delle critiche aggressive ed incontinenti sono problemi diversi da quello dei comportamenti del magistrato.

Né significa trascurare il pericolo dell’attuale esistenza, in generale, nel percorso decisionale di un giudice, di quella che è stata definita “la seconda domanda” (oltre a chiedersi chi ha ragione in base alla legge, egli si interrogherebbe sulle reazioni, dunque sulle conseguenze a sé favorevoli o sfavorevoli del proprio provvedimento). Ma questo rischio non è nato in questi giorni di aspro dibattito, né in tempi recentissimi. È la conseguenza di anni di politiche di delegittimazione dei magistrati e di provvedimenti dal sapore punitivo, adottati da governi di ogni colore.

Prima di guardare a se stesso, tuttavia, un magistrato deve prestare attenzione ai cittadini, in nome dei quali amministra la giustizia, e chiedersi se, ferma la propria buona fede, per effetto delle proprie azioni o dei propri comportamenti, la sua decisione possa essere oggettivamente credibile ai loro occhi. È questa la domanda che egli dovrebbe porsi.