Noi tifosi di calcio siamo passatisti. Neppure romantici: passatisti, proprio. Vale almeno per chi, come il sottoscritto, è nato in tempo per ricordarsi dei Mondiali di Spagna. Della grande vittoria sportiva che ha prodotto una lunga golden age, anche economica, per il calcio italiano. Ecco: a noi, istintivamente, la Superlega non è mai piaciuta.

L’idea di una coppa per soli top club provocò disgusto, già al suo primo apparire nella primavera di due anni fa, in gran parte dei tifosi italiani, eccezion fatta per una frazione minoritaria di juventini. Insorsero subito gli irriducibili inglesi, che scesero addirittura in piazza, quando il progetto di Florentino Pérez e Andrea Agnelli irruppe e franò in pochi giorni. Di più: contro la Superlega fecero muro i grandi poteri, anzi i vertici del potere europeo. Da Boris Johnson a Emmanuel Macron e Mario Draghi: quasi tutti i big della politica fulminarono il blitz di Real, Barça e Juve come un attacco alla sana tradizione popolare. Bene: adesso, zitti zitti, i giudici della Corte Ue, quella di Lussemburgo, stabiliscono che casomai sono le monopoliste Uefa e Fifa a infrangere le regole. E che la pretesa di bloccare una svolta elitaria, nel pallone europeo, è un illegittimo atto di arroganza.
Noi tifosi ora che dovremmo rispondere? Se lo dice la più alta e inappellabile Corte del Vecchio Continente, c’è poco da fare. Tranne una legge. O meglio, una direttiva, visto che siamo in Europa. Ma Strasburgo e Bruxelles arriverebbero mai a produrre un editto che consenta la libera concorrenza ovunque tranne che nel calcio? No, non ha senso. Non solo per via di quel principio, la libera concorrenza, così difficilmente emendabile, ma anche perché è inutile pretendere che il calcio resti com’era. Noi tifosi dobbiamo rassegnarci: nulla sarà come prima. Il business vincerà. Ha già vinto. E niente potrà fermarlo.

E non è certo colpa dei giudici: l’ormai inarrestabile avanzata della potenza araba, nel football mondiale, dice già tutto. Dice che il modello vincente è una coppa finanziata dagli emiri. Il calcio dei super ricchi è davvero più forte. I sauditi, e gli arabi in generale, controllano gran parte della Premier league inglese e altri grandi club come il Paris Saint-Germain. Noi vecchi tifosi siamo come il caro Bobo del compianto Sergio Staino, l’ultimo a ricordarsi che è esistito il Pci, che c’erano le sezioni, le Feste dell’Unità: come lui, anche noi siamo sempre più incapaci di spiegare la deriva che cancella le vecchie certezze.
Forse dobbiamo rassegnarci soprattutto all’idea che il vecchio calcio delle provinciali, dei campanili, delle nazionali, quello dietro cui sono arroccate da tempo anche le tifoserie ultras, è incompatibile con un mondo senza frontiere, con la dimensione cosmopolita in cui il modo di vita occidentale è sempre più immerso. E magari mai più vedremo una Coppa dei Campioni vinta da una misconosciuta Steaua Bucarest, che come nell’86 si asserraglia per difendere lo 0 a 0 nella finale col Barcellona e la spunta ai rigori perché un portiere-eroe – si chiamava Duckadam – ne para quattro.
Oppure no, magari i capi del calcio-business saranno magnanimi e uno spazietto per i piccoli Davide che una volta ogni tanto schiacciano Golia lo lasceranno. Può darsi.

La cosa peggiore che possiamo fare è rimpiangere una mitologia irripetibile. Meglio gustarsi il presente. E stare a vedere: perché se è vero che la palla è rotonda, anche il futuro del cosiddetto gioco più bello del mondo non è stato ancora scritto. Né dai tecnocrati del superbusiness né da noi vecchi passatisti capaci solo di inveire alla malinconia.