Il Consiglio di Stato che il 30 aprile ha confermato in modo definitivo la nomina di Marcello Viola a procuratore capo di Milano non ha solo liquidato una pratica. Ha anche aperto uno squarcio sui rapporti velenosi tra toghe di diverse correnti che si erano fronteggiate al Csm rinfacciandosi l’una contro l’altra la dipendenza da Luca Palamara. Era il 7 aprile del 2022 e c’era una certa urgenza di trovare un nuovo capo dell’ufficio in quel quarto piano del palazzo di giustizia di Milano dopo gli anni turbinosi che avevano visto su quella poltrona Saverio Borrelli e poi Gerry D’Ambrosio, Edmondo Bruti Liberati e Francesco Greco. Lo squadrone di Magistratura democratica, politica di continuità nell’ufficio che da cinquant’anni aveva sempre promosso “i milanesi”, sempre qualcuno che lavorava già lì, in quei corridoi, in quelle stanze. Nel nome di quella storia, che non era solo di Mani Pulite, ma anche di un metodo ambrosiano più volte criticato, soprattutto dall’avvocatura, per una certa disinvoltura sulle procedure. La competenza territoriale, per esempio. Ma anche, come denunciato di recente dall’ex gip Guido Salvini, su un certo controllo da parte della procura sull’assegnazione dei fascicoli processuali a gip graditi. I meno giovani ricordano anche il caso di quel sostituto così potente da essere riuscito a far allontanare dal proprio “caso” una gip che non aveva accolto una sua richiesta di custodia cautelare in carcere. Era il metodo ambrosiano.

Si respirava da tempo nell’aria milanese la voglia di cambiamento in quell’ufficio. Ma c’era per quel posto la candidatura ingombrante del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, a garantire invece la continuità. Quel 7 aprile di due anni fa erano però entrati in scena altri due nomi “pesanti”. Quello di Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, che portava sule spalle il fardello di esser stato vittima innocente del famoso scandalo dell’hotel Champagne. Quello che era costato la radiazione dalla magistratura di Luca Palamara, ma anche il blocco della nomina di Viola al vertice della procura di Roma. E quello di Giusi Amato, procuratore di Bologna, da pochi giorni promosso alla procura generale di Roma.

La voglia di cambiamento quel 7 aprile prevalse. Ma sarebbe ingiusto valutare quella decisione che porterà Marcello Viola al vertice della procura milanese come un puro atto politico. Lo hanno ribadito sia il Tar che oggi il Consiglio di Stato, nella loro valutazione tecnica, che ha tenuto conto dell’esperienza e del percorso di carriera dei tre candidati. Uno dei quai, Amato, si è fermato al primo ricorso. Più caparbio Maurizio Romanelli, che da pochi giorni è diventato procuratore capo a Bergamo, dopo aver svolto il ruolo di reggente a Lodi. Perché ha lamentato anche una certa disparità di trattamento che sarebbe stato riservato a lui e al suo rivale, tanto da invocare la necessità di un vero contraddittorio su una vicenda che lo avrebbe riguardato, come se una pratica amministrativa dovesse somigliare a un processo. Così si torna alla famosa seduta del 7 aprile 2022, quella in cui il plenum del Csm, con i 13 voti che promuovevano Marcello Viola alla procura di Milano, poneva fine ai 34 anni di dominio incontrastato di Magistratura democratica e ai 50 di promozioni ai “milanesi”. Era arrivato il primo vero papa straniero.

La pillola non fu indolore. E ci provò, nella seduta del Csm, Giuseppe Cascini, ex pm romano ed esponente di Area, la corrente di sinistra, a seminare dubbi velenosi sul candidato di Magistratura indipendente. Lanciò a Marcello Viola l’accusa più insultante, da un certo punto di vista, quello di intelligenza con Luca Palamara. Come se lui non l’avesse mai conosciuto, e basterebbe, per saperlo, aver letto i libri scritti e le interviste rilasciate dall’ex presidente del sindacato delle toghe. Comunque in quella sede Cascini, poi seguito dalla collega Alessandra Del Moro, ricordò che l’oggetto della famosa riunione dell’hotel Champagne riguardava proprio la nomina di Viola alla procura di Roma. Come se non fosse risaputo che spesso certi accordi politici passavano addirittura sulla testa del singolo candidato. Ed era proprio quello il caso, come ricorda la sentenza del Consiglio di Stato. Perché non vi è traccia di rapporti personali tra Marcello Viola e i “congiurati” di quella riunione.

Ma quel 7 aprile al Csm Giuseppe Cascini non aveva fatto i conti con la memoria ferrea di un altro togato, Nino Di Matteo. Non vorrei dover usare il tuo stesso argomento, aveva detto con malizia il pm “antimafia”, nei confronti del tuo candidato Romanelli, e dover ricordare l’intervento “alquanto scomposto” di un altro magistrato quando si trattava di confermare il collega milanese come aggiunto alla Direzione nazionale antimafia. Colpito e affondato. Cascini, ma anche Romanelli. Il quale da quel giorno non si è dato pace, con il ricorso al Tar e poi al Consiglio di Stato. Non ha accettato il fatto che Viola avesse requisiti di carriera ritenuti più rilevanti dei suoi, ma anche, e forse questo gli è bruciato ancora di più, di non aver potuto avere il famoso contraddittorio sull’episodio citato da Di Matteo al Csm. L’ultima sentenza di questi giorni ha dedicato un certo numero di pagine anche a questa parte del ricorso. E ha aperto uno squarcio sulla miseria di certi argomenti con cui nel passato, ma anche dopo che il “metodo Palamara” avrebbe dovuto esser stato superato, le toghe si fanno la guerra tra loro. In modo politico, e spesso con metodi peggiori di quelli dei politici.