Navalny è morto, è morto in una prigione russa. È morto ammazzato dal regime di Putin. E a questo punto non è importante sapere se a provocare la sua morte sia stato un veleno degli uomini dell’Fsb oppure, come dice la stampa di regime, se si sia trattato davvero di un’embolia. Di certo possiamo fidarci delle parole di Dmitry Muratov, il dissidente, il Nobel per la pace, la voce storica di Novaya Gazeta: «Sono sicuro - ha scritto Muratov, - che il coagulo di sangue (se è stato lui) è una diretta conseguenza della sua 27esima condanna in cella di punizione. Cos’è una cella di punizione? Immobilità, cibo ipocalorico, mancanza d’aria, freddo costante. Alexei Navalny è stato sottoposto a tormenti e torture per tre anni. Come mi ha detto il medico di Navalny, e il corpo non può sopportarlo».

Insomma, non resta che rassegnarci, non conosceremo mai la verità e del resto il risultato non cambia: Navalny è morto perché era una voce libera, e nella Russia di Putin le voci libere devono morire soffocate. Magari da un’embolia (sic!).

Ma forse stavolta lo zar ha sbagliato i suoi calcoli, non ha considerato le conseguenze di questa morte. Da tempo ormai la battaglia degli ucraini aveva perso appeal, tanto che in mezza Europa iniziava a serpeggiare una malcelata insofferenza verso le richieste di Kiev.

Negli ultimi mesi la voce di chi chiedeva un accordo con Putin - una resa - aveva alzato il volume facendo vacillare anche i più convinti sostenitori di Zelensky. Ecco, questa morte ci fa ripiombare nella realtà, nella consapevolezza che la guerra che si combatte a Kiev riguarda la libertà di noi tutti. E il corpo senza vita di Navalny è lì a ricordarcelo. Oggi più che mai.